È un “decreto Renzi-doc” quello approvato ieri sulle Banche popolari: da un Consiglio dei ministri svoltosi quasi in piedi, quasi fra le parentesi di una giornata in cui il premier e l’intera platea politico-istituzionale sono stati totalmente impegnati altrove (“Italicum” e Quirinale). Tanto che i “provvedimenti urgenti in materia creditizia” sono stati tolti e inseriti nell’ordine del giorno di Palazzo Chigi “ad horas”, a mercati aperti.
C’è tutto il “peggio”, ma nondimeno anche un po’ del “meglio” del renzismo nel “future” acceso a 18 mesi dal governo sulla trasformazione in Spa – praticamente “ad bancam” – delle prime dieci Popolari: Banco, Ubi, Milano, Emilia-Romagna, Sondrio, Valtellinese, Vicenza, Veneto, Bari. Non ultima, l’Etruria. C’è senz’altro il (cosiddetto) “peggio”: l’aggressività leaderistica e spregiudicata di Renzi, quella del resto già evidenziata pochi giorni fa nel codicillo “salva Berlusconi” inserito di soppiatto in un atto strategico come la delega fiscale. C’è un pezzo di Paese che dura da 160 anni e che vale un quinto dei depositi bancari buttato sul tavolo di Palazzo Chigi con insofferenza sbrigativa: cos’abbiamo oggi da giocarci sui social media e sui mercati? C’è il riformismo proclamato che però finisce sempre per parare su tentativi di rottamazione “a pronti”: quella – ad esempio – sempre meditata nei confronti di un banchiere-simbolo come Giovanni Bazoli, messo ora sotto nuova pressione dal decreto sul fronte Ubi. C’è sempre la Borsa che crea e distrugge centinaia di milioni di euro da un’ora all’altra sulle mosse febbrili di un premier “che non dorme mai” e che assomiglia talora al suo arcinemico Massimo D’Alema, soprannominato a suo tempo il merchant banker di Palazzo Chigi. C’è in fondo sempre di mezzo – in termini simbolici – il finanziere Davide Serra: un “amico del cuore” di Renzi, che di giorno gestisce da Londra fondi speculativi e di notte o nel weekend consiglia “le riforme di cui l’Italia ha bisogno”.
Nel blitz sulle Popolari, è vero, non manca neppure il (cosiddetto, presunto) “meglio” del renzismo. C’è anzitutto l’istinto di controbattere errori e lentezze altrui. Chi qui scrive, fa a tempo a ricordare il primo tentativo di un governo repubblicano di riformare le Popolari: era il 1992, l’esecutivo Andreotti-7, prima delle elezioni anticipate conclusive della Prima Repubblica, provò (senza convinzione e quindi senza esito) a trasmettere alle Popolari la scossa della trasformazione in Spa data due anni prima dalla legge Amato-Carli a Casse di risparmio e colossi pubblici. Renzi aveva allora 17 anni. Se ora che ne ha 40 ed è primo ministro maramaldeggia un po’ su un settore che ha sempre teso a rinviare il confronto aperto con il cambiamento, accusare lui di malizia pretestuosa serve a poco. (È’ vero che su un progetto di autoriforma delle Popolari stavano accelerando tre saggi del calibro di Alberto Quadrio Curzio, Piergaetano Marchetti e Angelo Tantazzi: perché non interpellarli, almeno, prima del decreto?).
Nel “renzismo” che l’Italia ha avuto modo di conoscere – con esiti alterni e spesso discutibili – c’è anche una qualche capacità di individuare terreni d’intervento prioritari sia per l’emergenza economica che per gli sviluppi politici. Ora è indubbio che la “questione bancaria” (Il Sussidiario da tempo l’ha identificata così) è rilevante e prioritaria. Famiglie e imprese – fra credit crunch e risparmio tradito – hanno avuto ampio modo di disamorarsi delle loro banche. In parte a torto dopo la crisi del 2008 e la sua gestione; ma comunque proprio in quei “territori” in nome dei quali ora si alza qualche barricata contro il “decreto Popolari” (per la verità più da parte del populismo politico che dai vertici del grande credito cooperativo).
Last but not the least: Renzi non ha mai sbagliato una mossa sulla scacchiera delle relazioni istituzionali al massimo livello. Ora, da poche settimane l’interlocutore per la vigilanza bancaria è sì un italiano, ma abita a Francoforte. Si chiama Mario Draghi e giusto tra ventiquattr’ore affronta “la madre di tutte le battaglie istituzionali”: la riunione decisiva del consiglio Bce sull’avvio del quantitative easing nell’area euro. Un passaggio tuttora incerto: bloody, nel gergo anglosassone, a metà fra “sanguinoso” e “fottutamente difficile”, contro le resistenze tedesche. Bene: è difficile contestare a Renzi una forzatura (grossa) sul versante bancario nazionale per aiutare il più possibile il presidente (italiano) della Bce a respingere al mittente le sprezzanti accuse finali di voler fare solo il gioco di un’Europa mediterranea in bancarotta.
Lo stress-test che a fine ottobre ha inaugurato l’Unione bancaria, giusto o sbagliato, ha mandato dietro la lavagna europea un “cattivissimo” (il Montepaschi di Siena) e un cattivo (Carige). L’unico modo in cui Draghi domattina potrà parlarne all’Eurotower – se interpellato – come di casi “in via di soluzione avanzata” sarà esibire il “decreto Popolari” di ieri: sarà dire che il governo italiano ha avviato una manovra organica di politica creditizia, tale da lasciar prevedere che entro i prossimi 18 mesi una serie pilotata di aggregazioni porterà il sistema bancario italiano a nuovi livelli di consolidamento (tali, fra l’altro, da reggere un eventuale ripartizione del rischio dei futuri acquisti di titoli di Stato italiano fra la Bce e la Banca d’Italia, cioè il sistema creditizio domestico). Draghi dovrà lasciar intendere che – come in Borsa già molti sommettono – una Ubi o una Bpm o altre Popolari (molto premiate dalla Borsa sui “rumor” di riforma) interverranno su Siena e Genova; e/o si fonderanno tra loro eliminando potenziali focolai di crisi.
È comprensibile che a Milano, Bergamo, Brescia, Verona, Modena, Sondrio, Bari i volti siano scuri (è anche vero che qualcuno ha già festeggiato in Borsa: così come a Mantova in molti festeggiarono quando il Montepaschi arrivò con un’offerta che non si poteva rifiutare sulla grossa Banca Agricola). Certo, nell’aria c’è un brutto odore di sconfitta per tutti se – dieci anni dopo le guerre bloody attorno ad AntonVeneta e Bnl – il sistema bancario italiano corre il rischio di essere ancora terreno di scorrerie e regolamenti di conti che nulla hanno a che fare con gli interessi reali del Paese. Va bene fondere-salvare Mps con Ubi e Carige con Bpm. Ma le “nuove Spa”, dopo, chi le difenderà dalle scalate?
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