I mercati festeggiano “whatever it happened in Frankfurt”, qualsiasi cosa sia successa stamattina al consiglio Bce. Quantitative easing doveva essere e Qe è stato. Lo spread italiano comincia a traguardare le due cifre (dal minimo di 116 dopo la conferenza stampa di Mario Draghi a meno di 100 il passo è brevissimo se confrontato coi 575 del novembre 2011). Tanto basta – almeno questa sera – per archiviare la resa dei conti odierna nella stanza dei bottoni dell’Eurotower come “pareggio d’oro” ottenuto dal presidente (italiano) della Bce in una proibitiva trasferta di Champions: l’Inter o il Milan di oggi sul campo del Bayern di oggi. Un punto-qualificazione su cui si sta già discutendo all’infinito nei talk-showdel dopo-partita, ma che non si può più discutere sul tabellone dell’euro: Draghi passa il turno, il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, no. E nessuno potrà neppure parlare di match falsato dall’arbitro, che per di più era una donna tedesca: il cancelliere Angela Merkel.



È stata lei – nel suo studio berlinese, giovedì scorso – a ricevere Draghi, rassicurandolo che il governo tedesco sarebbe stato fair nei confronti del leader della Bce. Che non avrebbe ostacolato politicamente l’orientamento strategico all’espansionsimo monetario nell’eurozona, a patto che venisse raggiunto un accordo tecnico con la Buba. Ma l’accordo è stato raggiunto, pur dopo un negoziato durissimo, chiaramente segnalato dai risultati: un tetto di 60 miliardi al mese per gli acquisti di titoli governativi dell’area euro fino al settembre 2016 (cosa diversa da “1.200 miliardi in 20 mesi”); e soprattutto un severa clausola di risk sharing (l’80% delle eventuali perdite sulle operazioni di compravendita a carico delle banche centrali nazionali, cioè dei rispettivi sistemi-Paese).



Dunque: se la Bce comprerà Btp (ma al massimo per qualche decina di miliardi al mese, su un debito pubblico italiano superiore ai 2mila miliardi) e a fine anno quei titoli varranno di meno nel bilancio Bce oppure verranno rivenduti alla fine in perdita questa minusvalenza dovrà essere rifusa dalla Banca d’Italia: il cui capitale (“rischio”) fa capo alle maggiori banche italiane. Un gioco politico-finanziario che non appare mal congegnato. Se un Paese riesce a stare al tavolo dell’euro grazie a uno spread guadagnato a livello globale a suon di riforme, si sarà meritato la “scommessa” concessagli dagli altri partner. Se invece il suo “merito di credito” non sarà tale da garantire un Qe “a costo zero”, sarà perché avrà ancora tardato a fare i suoi “compiti a casa” e questo – dal 2015 in poi – non sarà più gratuito nell’Europa dell’euro. Non lo sarà più per la Grecia, per l’Italia, per la Francia, per la Spagna. Come vuole il cittadino tedesco medio, anzi: come non voleva la loro banca centrale. Come alla fine ha voluto il cancelliere Merkel, tornata a rivestire (almeno un po’ ma quanto bastava) i panni del leader politico dell’Europa.



Non l’avrebbe fatto se al vertice della Bce ci fosse stato un oscuro funzionario nordeuropeo (una controfigura di Jean-Claude Juncker) e non un banchiere internazionale allevato in due scuole d’eccellenza: la Banca d’Italia di Carlo Azeglio Ciampi e la Goldman Sachs.

Ma – anche se non lo farà mai – la Bundeskanzlerin sa che deve ringraziare un altro “mediterraneo”: il premier italiano Matteo Renzi. Che – durante il semestre di presidenza italiana della Ue – ha cominciato a “sbattere la porta dall’interno”: a dire che la crisi economica europa – “whatever was originated” – aveva bisogno di soluzioni nuove, subito. E Renzi non è un demagogo ancora in attesa di entrare nella stanza dei bottoni (come il greco Alexis Tsipras); né l’espressione di un anti-europeismo oscuro (quella di Marie Le Pen); oppure di una decadenza ambigua: quella alla fine incarnata dal presidente francese Francois Hollande. È uno che l’altro giorno ha cambiato per decreto un pezzo di sistema bancario italiano come le Popolari. Una fiche in più nella manica di Draghi nell’ultima mano di un giro di carte pesantissimo.

Draghi la sua partita l’ha vinta: e nei confronti del suo Paese d’origine ha probabilmente saldato il conto lasciato virtualmente aperto da quando – più di tre anni fa – firmò la lettera che obbligò l’Italia a un’austerity che forse non meritava. Renzi dal canto suo, ha portato a casa un round di primo livello sul piano della credibilità esterna. Ora dovrà convincere gli italiani che il credito (letterale) conquistato ieri da Draghi va speso e bene. Anche perché è l’ultimo.