Dopo una lunga e travagliata gestazione arrivano finalmente le operazioni di “allentamento quantitativo” (Quantitative easing) anche nell’eurozona. Ora che gli Stati Uniti sono “ufficialmente” fuori dalla Grande crisi (l’ha detto l’altro giorno Obama nella relazione sullo Stato dell’Unione), decisamente anche grazie a queste operazioni avviate nel 2008 dalla Federal Reserve, e dopo che le medesime misure sono state adottate con successo in Giappone (in parte) e nel Regno Unito, si sono finalmente create le condizioni affinché anche in Europa la Bce possa utilizzare questo strumento di espansione monetaria.
Diciamo subito che si tratta di uno strumento di politica monetaria non convenzionale, che si traduce in un piano di acquisti di titoli pubblici e conseguente nuova immissione di moneta che accresce la liquidità del sistema, quindi la capacità di concessione di prestiti e, in ultima analisi, le capacità di spesa per consumi e investimenti. Vi si fa ricorso quando l’uso degli strumenti convenzionali ha già determinato una discesa dei tassi di interessi ai minimi livelli possibili (vicino allo zero) e l’unico mezzo per stimolare consumi e investimenti è appunto un allentamento quantitativo nella creazione e immissione di moneta.
Come’è facile intuire, alla crescita della moneta in circolazione corrisponde il rischio della crescita del livello dei prezzi e dunque dell’inflazione; bisogna saper dosare l’immissione di moneta e monitorarne l’uso soprattutto da parte delle banche (a ciò serve la politica monetaria) per evitare che lo stimolo all’economia si traduca in una perdita del potere d’acquisto. Vale la pena di ricordare che l’obiettivo principale della Bce è il mantenimento del potere d’acquisto dell’euro, con una crescita dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo (inflazione) non superiore al 2%: oggi e da tempo, siamo in deflazione con stagnazione/recessione!
La Bce arriva all’uso del Qe dopo avere introdotto altri strumenti non convenzionali per accrescere la liquidità del sistema come l’acquisto di titoli non pubblici (obbligazioni bancarie – covered bond – e titoli provenienti dalle cartolarizzazioni –Asset backed secutities). Il ritardo nell’uso dello strumento in questione è da ascrivere alla contrarietà dei paesi cosiddetti “virtuosi” per i noti motivi connessi alla paventata mutualizzazione del rischio del debito sovrano; timori che si sono materializzati in intoppi di natura legale e in oggettive complicazioni tecniche: fra i primi va ricordata la verifica della legittimità di queste operazioni in capo alla Bce, sollevata in Germania e riconosciuta di recente dalla Corte di giustizia europea. Le ragioni tecniche riguardano invece le differenze nei titoli oggetto dell’intervento nell’eurozona rispetto alle altre realtà: non si tratta di titoli “uniformi”, bensì di titoli aventi caratteristiche “difformi” , legate principalmente alle differenti situazioni statali di finanza pubblica (peso del debito rispetto al Pil e politiche di riequilibrio, ove necessarie) e alle conseguenze in termini sia di rendimento che di rischio (rating che variano dalla “tripla A” di Germania, Olanda, Finlandia e Francia – in quest’ultimo caso non unanime fra le differenti agenzie – alla “doppia B” del Portogallo e alla “C” della Grecia, queste ultime in categoria speculativa).
È evidente che in tal caso la decisione di acquisto di titoli già in circolazione da parte della Bce, deve essere preceduta dalla definizione di criteri condivisi circa la ripartizione sia della quantità per Paese, sia del rischio proprio di ciascun debito sovrano.
Proprio con riferimento a questi criteri, la Bce, nella riunione di ieri ha deciso:
Di avviare fin dal prossimo marzo un programma di acquisto di titoli pubblici e privati (sono dunque comprese le misure di cui si è detto sopra sui covered bond e sugli Abs) per 60 miliardi di euro al mese, da realizzare fino al settembre 2016 e comunque fino a quando non saranno raggiunti gli obiettivi in termini di tasso di inflazione; il programma complessivo va oltre i 1100 miliardi di euro, dunque oltre le aspettative degli operatori;
Di ripartire gli interventi per Paese sulla base della regola del “key capital”, ovvero della quota di partecipazione di ciascun Paese al capitale della Bce: l’Italia è il terzo Paese, dopo Germania e Francia, con una quota pari al 12,3%;
Di introdurre comunque dei limiti nell’acquisto dei titoli pubblici pari al 33% del debito del singolo paese e al 25% per ogni emissione;
Di adottare un criterio di condivisione del rischio (principio della mutualizzazione): per il 20% il rischio resta in capo alla Bce e per il restante 80% sulla Banca centrale nazionale del Paese interessato; viste le premesse, pare un buon compromesso;
La scadenza dei titoli acquistati potrà variare dai 2 ai 30 anni.
Il ritardo col quale si adotta lo strumento, ritenuto dai più indispensabile e imposto dal deteriorarsi della congiuntura economica in tutta l’eurozona, ha consentito al mercato di anticiparne in buona misura gli effetti attesi: si è infatti già realizzato sia un sensibile deprezzamento dell’euro rispetto alle altre valute (dollaro in primis e da ultimo l’indispensabile abbandono della difesa del cambio da parte della Svizzera), sia una altrettanto sensibile riduzione del rendimento dei titoli pubblici in euro, cui si è accompagnata una riduzione del nostro spread.
Dando per scontata un’immediata euforia sui mercati (borse in ascesa, cambio e spread in calo) quali le conseguenze per il nostro Paese? In teoria possiamo aspettarci conseguenze sicuramente positive: la svalutazione dell’euro favorisce le nostre esportazioni; la contemporanea discesa del prezzo del petrolio consente a un’economia di trasformazione come la nostra di accrescerne la forza competitiva; la maggiore liquidità che inevitabilmente si crea darà alle nostre banche maggiori opportunità di impiego in prestiti destinati a imprese e famiglie; la discesa dei tassi di interesse sul debito pubblico consentirà di proseguire con rinnovato impegno (ci auguriamo) le politiche di riequilibrio della finanza pubblica.
Sembrano esservi le condizioni per una svolta decisa della congiuntura economica; per cogliere questa opportunità va però sempre ricordato che la liquidità (e dunque gli interventi della Bce) è condizione necessaria ma non sufficiente per la svolta; a ciò concorrono numerosi altri elementi e, fra questi, anche un consolidamento della struttura finanziaria da realizzare anche nel nostro Paese, come ha evidenziato la recente verifica condotta dalla Bce sulle banche principali.
Il recente provvedimento della trasformazione in Spa delle principali banche popolari va certamente in questa direzione, poiché consentirà di superare più agevolmente gli ostacoli che sempre si frappongono quando si deve procedere a razionalizzazioni di strutture bancarie. Se c’è qualcosa che ci ha insegnato questa lunga crisi è che non è più il tempo di rincorrere malintesi localismi territoriali (più o meno reali) a scapito della sopravvivenza nel lungo periodo non solo della singola istituzione ma di interi distretti produttivi, spesso di eccellenza, in un mondo che cambia di continuo e così profondamente.