C’è già chi, più fantasioso, parla di “patto della ribollita”, piatto forte della cena a palazzo Vecchio. Certo è che Matteo Renzi, tra manicaretti toscani e bellezze fiorentine, a Firenze ha ospitato una Angela Merkel di buon umore. La Cancelliera ha apprezzato le riforme e incitato il capo del governo italiano ad andare avanti. Si è anche sbilanciata nel dire che gli imprenditori tedeschi ora investiranno in Italia (grazie anche al Jobs act). Vedremo. Meglio non farsi obnubilare dalla retorica, dagli annunci o dalla diplomazia del selfie.
Renzi era entusiasta della svolta di Mario Draghi (“adesso dobbiamo mettere il turbo”, ha detto); la Merkel ha preferito un “no comment”. Forse l’approva, certo l’ha lasciata fare dopo l’ultimo incontro con il presidente della Bce. Ma sa che i suoi elettori sono contrari, come buona parte del governo e la maggioranza dell’opinione pubblica. Lo stesso vale per un eventuale terzo salvataggio della Grecia all’ordine del giorno anche se non vince Syriza (le trattative a Bruxelles sono già cominciate). Il sentimento comune non è cambiato verso i paesi spendaccioni del sud.
L’Italia ha un attivo del bilancio pubblico al netto degli interessi pari a quello tedesco e anche la Grecia non è molto lontana. Ma nessuno in Germania lo sa. Colpa dei corrispondenti dei giornali? O della gente che non legge? Forse entrambe le cose. In ogni caso, in questi ultimi anni i due reprobi non hanno peccato.
L’Italia poteva fare di più dal lato della spesa, certo deve fare di più sul piano della produttività. E lo stesso vale per l’economia ellenica. Tuttavia i tedeschi non vogliono capire che l’attuale crisi dei debiti sovrani è la conseguenza della crisi finanziaria mondiale non la causa. Per superarla ci vuole espansione economica, non certo contrazione e neppure stagnazione.
Cambiare questo senso comune sarà difficilissimo, forse impossibile. Ne è convinto Mario Draghi che ha fatto di tutto per aggirarlo e ci è riuscito, isolando sostanzialmente la Bundesbank. Lo spiega molto bene Simon Nixon sul Wall Street Journal. Prima Draghi ha persuaso Jens Weidmann a firmare una serie di dichiarazioni che riconoscono i pericoli della bassa inflazione, per non parlare della deflazione pura e semplice. Poi ha ottenuto il via libera dal consiglio della Bce a un ampio ventaglio di politiche allo scopo di riportare i prezzi a una crescita annua vicina al 2%. Non solo, ha convinto i governatori a legare la lotta alla deflazione a un aumento del bilancio Bce di almeno mille miliardi (tornando in realtà ai livelli dell’autunno 2012). Infine, ha dimostrato che il modo migliore era acquistare titoli, anche pubblici, attraverso le banche centrali nazionali. A quel punto, scrive Nixon, “Weidmann era all’angolo”. Tanto che ha ridotto la sua obiezione solo a una questione di tempo.
Un’abilità manovriera notevole, quella di Draghi, anche se sotto la pressione drammatica degli eventi. Il presidente della Bce ha accettato un compromesso, cioè che l’80% delle eventuali perdite ricada sui singoli paesi. Una condizione imposta dalla Buba (la quale in realtà voleva che tutti i rischi fossero nazionali). Ma si tratta di uno scenario ipotetico. Perché se scoppia di nuovo una crisi sistemica ci sono solo due alternative: o si molla la moneta unica e tutti nell’immediato subiranno perdite pesanti, o per difenderla ciascuno dovrà assumersi un qualche onere più o meno grande. La Merkel lo sa o quanto meno se lo è fatto spiegare. E preferisce tacere piuttosto che dire la verità ai suoi seguaci con il dente avvelenato.
I mercati hanno capito bene la sostanza della svolta. Intanto a loro interessa che arrivino almeno mille miliardi in più (nel conto totale entrano anche gli acquisti di asset già realizzati, quindi i titoli nuovi ammontano non a 60, ma a circa 50 miliardi al mese ameno fino a settembre 2016). Ciò spinge in basso gli interessi e segna una vera tregua nella guerra degli spread, il che vuol dire spazio per investimenti anche a medio termine, soprattutto se l’euro rispetto al dollaro si tiene basso.
Dunque, si è aperta un’opportunità notevole, forse unica, per il governo italiano. Una politica monetaria accondiscendente non basta per una solida ripresa, questo si sa. Tuttavia ne rappresenta la premessa. Adesso tocca alle riforme, dice la Merkel. Sì, ma non solo. Adesso tocca alla politica fiscale. La Germania può fare di più dal lato della domanda interna per consumi e per investimenti. Quanto all’Italia, deve correggere l’errore fondamentale commesso a partire dal 2011: un aggiustamento tutto a carico delle tasse e delle pensioni. Certo, la pressione degli eventi e il rischio di collasso rappresentavano un’attenuante. Ma, come ha scritto Alberto Mingardi sulla Stampa, la spesa pubblica in questi anni ha continuato a crescere: nonostante i piagnistei sui tagli, non si è interrotta quella spirale che in passato ha provocato la scalata micidiale del debito.
Per cogliere l’occasione che la svolta di Draghi offre, Renzi deve impostare la prossima manovra di politica economica riducendo le imposte, in modo progressivo, ma certo. Come finanziare l’operazione? Non con la solita tiritera della lotta all’evasione, ma con un rilancio serio della spending review sepolta colpevolmente nei cassetti del ministero dell’Economia. Di questo, però, non si parla. C’è da pensare a eleggere il nuovo presidente della Repubblica, è vero, ma l’euforia finanziaria svanisce nello spazio di un mattino e per varare una nuova politica economica non c’è più molto tempo.