Pensate che con l’articolo di sabato io abbia concluso la mia analisi sulle criticità insite nel Qe lanciato giovedì scorso dalla Bce? Sbagliate. Eccovi altre otto ragioni per cui quanto appena deciso dall’Eurotower potrebbe, nel medio termine, trasformarsi in un incubo. Primo, i rendimenti obbligazionari ai minimi possono aumentare i deficit di fondi pensione e assicurazioni, ponendoli nella condizione di dover prestare da subito preoccupata attenzione alla necessità di fare matching su assets e libialities. Già nelle ultime settimane si è registrato un ampio allargamento dei deficit dei fondi pensione, con quelli britannici tornati addirittura al livello dei massimi registrati nel maggio 2012. E in aree dove le restrizioni regolatorie sono stringenti, come l’Europa, deficit ampi inducono fondi pensione e assicurazioni a scappare ulteriormente da equities e altri assets a rischio, dirigendosi verso il reddito fisso. Anche per questo, scordiamoci che gli effetti del Qe della Fed siano replicabili in Europa.



Secondo, il Qe sta creando un regime di rendimenti molto bassi ma anche di alta incertezza. In ultimo, il Qe rende più complicata l’uscita delle Banche centrali da operazioni di stimolo e fa salire il rischio di incorrere in un errore politico o nell’aumento delle percezioni riguardo la monetizzazione del debito. Insomma, può potenzialmente creare bolle sugli assets proprio abbassando i rendimenti degli stessi così tanto rispetto alla normalità storica da rendere un eventuale ritorno a politiche convenzionali un percorso costellato di criticità, prima della quali un netto calo del prezzi degli assets. Inoltre, la percezione di potenziali bolle può anche aumentare l’incertezza sul lungo termine, un qualcosa che potrebbe innescare paradossalmente una reazione deflazionistica da parte delle aziende, ovvero spostare in avanti spese e investimenti alla ricerca di una direzione e di maggiore chiarezza sui mercati.



Terzo, gli spread ultra-bassi sul credito e i rendimenti sulle obbligazioni corporate sono una diretta conseguenza del Qe, ma non sono esenti da distorsioni. Garantendo potenzialmente ad aziende inefficienti e improduttive di sopravvivere, proprio grazie ai costi bassissimi del servizio del debito, il Qe può fare in modo che si eviti il processo di distruzione creativa schumpeteriana tipico di un normale e sano ciclo economico: così facendo, si rischia di rendere le economie dei vari paesi meno efficienti e meno produttive sul medio-lungo termine, esattamente l’opposto di quanto serve – ad esempio – alla cosiddetta “periferia”.



Quarto, gli effetti di benessere legati al Qe non sono affatto redistributivi, visto che dall’aumento dei corsi azionari e del mercato immobiliare beneficiano per la gran parte i detentori principali dei beni, ovvero chi è già ricco. I risparmiatori, che sono di fatto “long” sui risparmi, vedono un’erosione dei loro redditi e beni: questa dinamica di fatto si aggrava se relativizzata all’area euro, vista la poca propensione dei cittadini medi verso l’investimento nel mercato azionario e quindi il limitato effetto di benessere e fiducia che l’aumento dei corsi può generare, un qualcosa di differente dal Qe della Fed visto il livello di esposizione dell’americano medio al rischio sulle equities come forma di investimento primaria.

Quinto, il Qe può esacerbare la guerra valutaria già ora in atto. Da un punto di vista politico, la decisione della scorsa settimana della Banca centrale danese di portare ulteriormente in negativo il suo tasso sui depositi allo 0,30% e quella della Banca centrale svizzera non solo di abbandonare il peg difensivo per il franco attraverso un tasso di cambio minimo fisso contro l’euro ma anche di abbassare anch’essa il tasso sui depositi addirittura a -0,75% mostrano già oggi quanto stia diventando difficoltoso per i paesi non euro ma europei seguire la discesa verso livelli di cambio sempre più bassi della moneta unica. I principali competitor dell’area euro nei mercati emergenti e in quelli sviluppati, poi, sentiranno la pressione data dal forte deprezzamento dell’euro e questo li indurrà a politiche di stimolo o di contrazione: nei Paesi emergenti le guerre valutarie sono il risultato tipico di un intervento monetario o di accumulazione di riserve in valuta estera o, in casi estremi, di controlli sul capitale, un qualcosa che porta immediatamente gli investitori obbligazionari del paesi sviluppati verso un ritorno sui loro mercati, sostanziando pericolose fughe di capitali.

Sesto, il Qe colpisce le banche. Le banche commerciali stanno già affrontando il rischio di una contrazione sui margini dei tassi di interesse e sulla profittabilità, vista l’ormai quasi impossibilità di abbassare ulteriormente i tassi sui depositi, già oggi vicini allo zero, tanto che i tassi sui prestiti stanno collassando. L’esperienza della Danimarca, che è stata la prima nazione a introdurre tassi negativi sui depositi nel luglio 2012, ci mostra come le banche abbiano sofferto un’erosione dei loro margini di profitto, visto che i tassi sul prestito calavano più velocemente dei tassi di deposito.

Settimo, non solo le banche sono colpite. Il ridotto turnover e la minor liquidità ha colpito anche il trading sul reddito fisso presso le banche d’investimento negli ultimi anni e la Bce rischia di esacerbare questo trend, tanto che la mancanza di collaterale in Treasuries ha colpito già la scorsa estate il mercato repo Usa. La Bce sembra destinata a generare danni simili anche al mercato repo europeo, visto che il collaterale dei governi sarà ritirato a un ritmo pari a 45 miliardi di euro al mese da marzo in poi, il tutto aggravato dal fatto che, a differenza della Fed, la Bce si è spinta oltre e lo scorso giugno ha portato i tassi sui depositi in territorio negativo. E, ovviamente, rendimenti negativi vanno a incidere su volumi e liquidità del trading, visto che i partecipanti del mercato sono meno disposti e propensi a un trading su yield negativi. Sui mercati repo, i tassi overnight generali sul collaterale assicurato hanno mostrato alta volatilità tra i -15 punti base e zero negli ultimi sei mesi, il che significa che gli investitori che cercano di coprire posizioni short devono prendere a prestito cash a tassi negativi.

Tipicamente i tassi negativi sono prevalenti sui debiti governativi a breve termine, ma è ormai trend consolidato quello che vede anche maturities più lunghe, ovvero più di un anno di scadenza, aumentare il loro rating a tassi negativi (la Svizzera è negativa fino al maturity di 14 anni). Su stime di JP Morgan, circa 1,4 triliardi di euro di bonds governativi già oggi stanno tradando su rendimenti nominali negativi, la maggior parte dei quali sono riconducibili a governi della cosiddetta area “core” dell’Ue e fino alla scadenza dei cinque anni, come ci mostra il grafico a fondo pagina. Fino a giugno, ovvero quando la Bce ha imposto i tassi negativi sui depositi, il tasso di obbligazioni sovrane dell’area euro con scadenza superiore a un anno che tradavano in territorio negativo era virtualmente zero. Quindi, per ora la Bce ha fallito nel tentativo di innalzare il tasso di inflazione in modo controllato, quantomeno per quanto riguarda le metriche di dinamica dei prezzi su base stagionale e il timore è che nel tentativo di smuovere i processi formativi, Draghi arrivi al punto limite di attivare il cosiddetto “elicottero”, ovvero gettare soldi a pioggia, evoluzione che per quanto abbiamo detto finora non farà altro che portare al collasso del mercato ma a fronte di un risultato, cioè mandare in territorio negativo il 20% dei rendimenti di bond governativi europei.

Certo, c’è ancora l’80% di bonds sovrani che trada con coupons positivi ma per quanto? Per quanto, ad esempio, i fondi pensione e le assicurazioni continueranno a comprare – oltre a un diluvio di equities europee, le quali però attraverso i loro corsi rialzisti non attivano la leva del benessere a livello di redistribuzione – titoli di Stato i cui rendimenti flirtano sempre più con quota zero o addirittura negativi? E poi, per quanto il mercato sarà così sconnesso e drogato da mettere sullo stesso piano Svizzera e Germania (ma anche Usa) con Italia e Spagna a livello di investimento quasi risk-free dei loro bonds?

 

Al netto di yield che non mi garantiscono quasi più carry-trade sui differenziali del costo del denaro, infatti, se devo investire sarò psicologicamente portato a farlo dove davvero il rischio è quantomeno zero, ovvero verso i cosiddetti “safe haven”, non certamente rappresentati dai debiti di Roma e Madrid o dalle loro sottostanti e asfittiche previsioni di crescita e dinamiche macro. Attenzione, quindi: il Qe potrebbe comprimere talmente tanto i differenziali – e quindi le prezzature di rischio del mercato – da ottenere l’effetto inverso a quello desiderato, quindi fuga verso i beni rifugio e spread periferici che torneranno a salire, esattamente come accadde dopo il programma di acquisto Smp che la Bce mise in capo nel picco della crisi dei debiti sovrani.

Ottavo, la Bce ha creato frizioni politiche tra i suoi membri che potrebbero conoscere una pericolosa escalation futura – già nei giorni scorsi si è registrato un duro faccia a faccia tra Bundesbank e governo italiano – una volta che il Qe si sia trasformato di fatto in un carry trade negativo per le banche centrali, ovvero quando l’interesse sulle riserve in eccesso comincia a salire sopra il livello di rendimento che gli istituti ricavano dalle loro detenzioni obbligazionarie. Questi argomenti politici potrebbero ridurre il coordinamento tra le politiche di governi e banche centrali o anche mettere in discussione la stessa indipendenza di queste ultime in un futuro abbastanza prossimo (ammesso e non concesso che ancora siano indipendenti).

Le argomentazioni politiche potenziali sono poi maggiori nell’area euro a causa del suo status di frammentazione, basti notare l’acuirsi delle differenze politiche tra membri “core” come la Germania e membri della cosiddetta “periferia” subito dopo l’annuncio del Qe, un qualcosa che potrebbe aver già seppellito del tutto l’ipotesi, molto peregrina, di un processo di avvicinamento a tappe graduali verso unione fiscale e politica dell’Ue. Esempio lampante della frammentazione e della divisione politica imperante, è la decisione della Bce si porre il tetto della condivisione di rischio sugli acquisti obbligazionari solo al 20%, ponendo l’80% sulle spalle della Banche centrali dei vari Paesi.

E attenzione, perché è vero che gli acquisti toglieranno debito potenzialmente a rischio dai portafogli dei creditori esteri, rendendo paesi anche grandi come l’Italia meno pericolosi e sistemici per l’eurozona in caso di ristrutturazione o default, ma se una di queste due ipotesi dovesse incorrere e i mercati dovessero cominciare a dubitare della sostenibilità del debito di uno Stato, il bilancio di Target2 si espanderebbe, causando un aumento esponenziale dell’esposizione della Bundesbank verso il resto dell’area euro, questo senza alcuna correlazione con il grado di compartecipazione del rischio deciso dalla Bce per il programma di stimolo. Insomma, quella quota 20% pone più interrogativi politici sul grado di convinzione e adesione che i vari Paesi hanno verso il progetto comune europeo che reali vincoli di tenuta delle finanze dei vari Stati in caso di default di uno o più membri.

E c’è dell’altro che pesa più a livello di percezione emozionale e storiografica che non direttamente economica o finanziaria in questo Qe e rappresenta il vero motivo sia dell’ostruzionismo della Bundesbank in sede di decisione sui dettagli operativi del Qe, sia dell’attacco durissimo che Berlino ha mosso contro Draghi e contro l’Italia subito dopo il suo varo: ce lo spiega questo grafico più di mille parole. Anzi, ne bastano due: Weimar reloaded. 

 

P.S.: Nel momento in cui spedivo questo articolo in redazione perché fosse impaginato, il primo exit poll sulle elezioni in Grecia parlava di una vittoria storica di Syriza, valutata tra il 35,5% e il 39,5% dei consensi e quindi potenzialmente in grado di ottenere tra i 146 e 158 seggi in Parlamento, dove serve arrivare a quota 151 per avere la maggioranza assoluta. Secondo partito il centrodestra di Nuova Democrazia dell’ex premier Samaras dato tra il 23% e il 27%, mentre il terzo posto vedeva un testa a testa tra il centrosinistra del Pasok e Alba Dorata. Se questi dati saranno confermati e domani sui mercati non si ballerà, vorrà dire solo due cose: o quello di Alexis Tsipras verso le autorità europee è solo un bluff oppure Bce e Commissione europea hanno già dato il loro benestare al cosiddetto “Grexit”, l’uscita di Atene dall’euro. In quel caso, si spiegherebbero ancora di più le mosse della Banche centrali di Svizzera e Danimarca compiute nei giorni scorsi.