La vittoria di Syriza in Grecia deve essere l’occasione di una profonda riflessione sul nuovo ciclo politico che si apre in Europa dopo i circa 15 anni, possiamo dirlo, di fallimento della poliarchia europea. Se la poliarchia è la convivenza di rappresentanza territoriale espressa dalle assemblee elettive di ogni ordine e grado, e di quelli che io chiamo poteri situazionali di fatto (grandi imprese oligopolistiche e monopolistiche e tecnostrutture non elettive), occorre avere il coraggio di dire che tale poliarchia è nata pericolosamente sbilanciata verso i poteri situazionali di fatto ed è stata sinora un governo misto di oligarchia e di plutocrazia.
La prova di ciò risiede nell’assoluta mancanza di poteri direttamente compulsivi del Parlamento europeo eletto con gran clangor di buccine ma costretto a veder passare le sue leggi (sic!) attraverso il filtro tecnocratico della Commissione e del Consiglio europeo. Se si aggiunge poi il fatto, sociologicamente incontestabile, che gran parte di quella tecnocrazia non è mai solo oligarchia perché cooptata non per meritocrazia ma per omofilia e clientelismo, abbiamo il drammatico quadro del ciclo politico che forse ci stiamo lasciando alle spalle a livello europeo.
È stata questa configurazione strutturale della poliarchia europea che ha creato all’interno della sua asimmetria costituzionale un’altra asimmetria. Mi riferisco a quell’asimmetria derivata dal regime demografico, dalla posizione geopolitica, dall’irrimediabile cultura di potenza che si è disvelata tra le medie potenze europee. Quando si sottraggono ai popoli le scelte, il peso della storia secolare è ancora più forte ed è ciò che è successo in Europa. Dopo il crollo dell’impero sovietico, ottanta milioni di tedeschi si sono trovati, dopo essersi potuti unificare grazie all’aiuto nordamericano negli anni Cinquanta e alla stupidità diplomatica franco-italiana negli anni Ottanta, a imporre il loro spirito di potenza in primo luogo contro la Francia e in secondo luogo contro l’Europa del Sud.
L’aggregazione delle nazioni ex-comuniste dei paesi nordici al blocco teutonico era inevitabile. Il tutto alimentato da un’ideologia, quella liberista e di deregolazione della finanza, frutto delle neo-ideologie liberal socialiste di Blair e di Clinton, da un lato, e dal rinnovato vigore dell’ordoliberalismus tedesco, dall’altro, che è stato il cemento di una politica economica che ci ha portato al disastro. Un disastro che si è concretato già ben prima dell’emergere della crisi e che ha creato la bolla finanziaria che poi ci ha travolto nel 2008.
Sin dall’inizio degli anni Novanta, nel contesto dell’ubriacatura della new economy e dell’irrazionale esuberanza borsistica, le banche anglo-franco-tedesche hanno alimentato colossali investimenti nell’Europa del Sud, che si sono aggiunti a quelli di derivazione europea attraverso i fondi strutturali che sono stati e sono, per intenderci alla svelta, una colossale Cassa del Mezzogiorno degenerata a livello europeo. Gran parte del debito dei paesi del sud Europa deriva da questa follia da iperinvestimenti che hanno alimentato a loro volta speculazioni finanziarie a debito a non finire e che hanno posto le basi per possibili default dei paesi del sud Europa.
La Grecia è stato il punto più grave e sensibile di quella tragedia. Governata da oligarchie plutocratiche estero vestite (è nella Costituzione il privilegio degli armatori di non poter pagare tasse) e da cleptocrazie partitiche nazionali di lungo lignaggio (i Karamanlis e i Papandreou ne sono i punti più visibili), la Grecia, culla della democrazia ma anche delle più spietate dittature, ha amplificato con la macchina del clientelismo diadico e di gruppo (partiti di massa ma a forma di grappoli neocaciquisti di gruppi e personali) una profonda disuguaglianza mascherata da sprechi pubblici dilaganti, atti a mantenere in vita quel regime oligarchico cleptocratico grazie al consolidamento esteso ma sottile della macchina tradizionale dei partiti.
Poi vennero gli anni del cosiddetto default greco, dove si raggrumarono tutti i vizi di cui quelle oligarchie avevano infettato anche gli ultimi, anche i poveri, cercando di distruggerne persino l’anima. Il nuovo ciclo politico europeo che inizia in Grecia disvela tutto ciò. E lo fa in modo contraddittorio. Il Pasok scompare perché gli ultimi si infettano ma sono protetti da Dio, e possono esser aiutati a risollevarsi se trovano dei maestri. E il Pasok non ne aveva. I parassiti dell’oligarchia cleptocratica invece continuano a sperare che la loro natura saprofita possa continuare a riprodursi ed ecco che Nuova Democrazia di Samaras, ma in effetti dei vecchi Karamanlis, ottiene un bel risultato in mezzo alla catastrofe: il 28% vuole ancora continuare a vivere di clientelismo, di privilegi, di parassitismo. Naturalmente gli scogli affioranti delle vecchie ideologie della destra filofascista e della sinistra comunista staliniana e post-staliniana non possono che rinvigorirsi nella crisi (Alba dorata) oppure riaffermare caparbiamente se stesse (il Partito comunista greco un tempo chiamato “dell’esterno”, perché aveva rotto con quello dell’interno eurocomunista e filoitaliano).
La vittoria di Tsipras è l’inizio di un nuovo ciclo politico perché non è la vittoria di un gruppo estremista, ma, com’è stato evocato dal Financial Times, il giorno prima delle elezioni, realista, come il lungo articolo su Le Monde di Tsipras apparso anch’esso il sabato prima delle elezioni dimostra. Syriza eredita l’intransigenza anticlientelare, orgogliosa e nutrita da anni di riflessione autocritica, del Partito comunista “dell’interno”, che ha trovato nuova linfa e vigore nei movimenti studenteschi di massa del 1995 contro la destra, contro il pericolo di un nuovo autoritarismo. Movimenti da cui i leader di Syriza sono nati così com’è accaduto in Cile, nel grande moto di rivolta universitario che ha portato la Bachelet alla vittoria presidenziale sotto la guida di una leadership femminile della gioventù comunista cilena.
Syriza ha fatto ciò che solo die Linke in Germania è riuscita a costruire, l’intreccio di una solida base teorica che guida gli animi verso il realismo e il compromesso, che sono l’essenza dell’arte della politica, e il radicamento nei movimenti operai e sindacali e della povera gente. Naturalmente quest’intreccio ha costituito e costituisce un forte catalizzatore nelle classi medie impoverite e devastate dalle politiche neo-schiaviste, crudeli, ed economicamente pazzesche, della famigerata Troika.
Credo che sia stato raro nella storia del Novecento trovare un’insensibilità così grande di fronte alla sofferenza sociale come quella espressa dai banchieri e dai tecnocrati europei. Il mio ricordo va a quella sofferenza inflitta da Poincaré e dalla classe dirigente francese, dopo aver sconfitto la Germania nella Prima guerra mondiale, quando si rischiò di far morire di fame milioni di tedeschi, per le sofferenze imposte alla nazione sconfitta. Solo la compassione dei soldati inglesi che cominciarono a dividere le loro razioni con le famiglie tedesche ridotte alla fame – così ci raccontarono tanto Lord Keynes, quanto Francesco Saverio Nitti – facendo sollevare per lo scandalo la stampa nordamericana, costrinse i francesi a finirla con le loro angherie revansciste. Ora, se udiamo il ministro Schäuble e il banchiere Weidmann e vediamo i sorrisetti indifferenti della massaia sveva che guida di fatto l’Europa, capiamo che la tragedia si ripete, con attori diversi che ci insegnano che dalla storia e dal male, se non si ha pietà, non si impara mai nulla.
Il nuovo ciclo politico europeo deve iniziare grazie a tre virtù: quella della pietà, ponendo le basi di una nuova solidarietà e condivisione di sovranità, dando vita a una grande conferenza internazionale sul debito, che veda protagonisti non solo gli stati europei ma anche gli Stati uniti e la Russia. La seconda virtù è quella della temperanza che Tsipras ha già iniziato a rendere manifesta alleandosi con un partito di centrodestra populista e schierato contro l’austerità tecnocratica europea. È una mossa molto intelligente, perché lascia spazio a un’opposizione di sinistra che può incanalare il radicalismo generato dall’ideologia e dalla sofferenza, e nello stesso tempo non lasciare l’opposizione sociale alla destra neonazista. Una mossa tattica di grande maturità, frutto di una profonda riflessione sulla storia greca, che quei vecchi capi eurocomunisti svilupparono in studi scientifici e che hanno ora consegnato a questa nuova classe dirigente di Syriza.
La terza virtù è quella della speranza, a cui il leader vincitore si è, con un afflato molto cristiano, continuamente appellato. I miei venticinque lettori sanno che questa virtù, che è quella di Peguy, mi è particolarmente cara. Come la speranza, dobbiamo tornare bambini e camminare verso quel nuovo ciclo europeo che vedrà dapprima i vincitori greci negoziare realisticamente la fuoriuscita dall’austerità, e in secondo luogo generare una profonda trasformazione delle istituzioni europee. Una trasformazione che non potrà essere che quella di una poliarchia europea confederale ossia un’unione di stati, di nazioni europee che continuino ad avere una moneta unica ma riacquistino sovranità di bilancio e di spesa, come accade oggi nella piccola Svizzera e nel grande impero nordamericano. Ancora una volta la Grecia parla al mondo.