La Fed rimarrà dunque “paziente” almeno fino alla metà del 2015 nel valutare un possibile rialzo dei tassi del dollaro. Questi rimangono dunque near zero a un anno dall’insediamento al vertice di Janet Yellen, quando la strategia della banca centrale Usa sembrava guardare a un effettivo tapering: un rientro progressivo del poderoso Quantitative easing che dal 2009 al 2013 aveva sostenuto la ripresa economica e il risanamento bancario a colpi di trilioni di liquidità. 



Se gli acquisti di titoli pubblici Usa sono stati ultimati nell’ottobre scorso, già alla vigilia del Fomc mensile conclusosi ieri sera un economista come David Mericle di Goldman Sachs si mostrava scettico anche sulla possibilità che la Fed possa avviare una qualche restrizione della politica monetaria anche dopo l’estate. Un report di Morgan Stanley è più netto ancora: nonostante dal comunicato Fed sia stata tolta la sottolineatura sull’invarianza prevista per i tassi “per un considerevole periodo di tempo”, gli analisti di Wall Street ritengono “improbabile” un ritocco dei tassi prima di un anno, all’inizio del 2016.



È vero che la bussola scelta dalla Yellen – l’andamento dell’occupazione – segnala il raggiungimento di un punto ritenuto di svolta (5,9%, vicino al 5% pre-recessione), eppure – all’unanimità – ieri il Fomc ha deciso di attendere. Preoccupa chiaramente un altro dato macro: l’inflazione debole (0,8% in dicembre, il più basso dato in un periodo di crescita del Pil), addirittura con stime di ulteriore flessione. È l’implicita ammissione che nella ripresa americana – apparentemente robusta e duratura (+5% nel terzo trimestre, rivisto al rialzo) – i banchieri centrali scorgono almeno qualche traccia residua di “doping monetario”. E che – in particolare – sono più preoccupati da un’economia globale che fatica a correre: che rallenta in Cina, e non accelera nell’Ue e neppure in Giappone. E non bastano – evidentemente – a rassicurare i capi delle Fed statunitensi le prime stime positive sull’effetto-petrolio atteso. Anche Larry Summers – veterano di finanza e politica fra New York e Washington – ha messo in guardia la Fed (alla cui presidenza era lui stesso candidato) dal frenare troppo velocemente, innescando una “crisi deflazionistica”.



Quasi certamente, d’altronde, la “pazienza” della Fed è rivolta oltre Atlantico: a quella Bce che soltanto giovedì scorso ha sbloccato una politica monetaria espansiva, che tuttavia si fatica – almeno per ora – ad avvicinare al Qe del dollaro. A metà fra lo stand-by e il rinnovato endorsement per “super-Mario” Draghi, la Yellen ha voluto confermare la sua fiducia nelle grandi iniezioni di liquidità, che a ragion veduta si tarda a ritirare. Certo, sui mercati finanziari anche troppo buon umore può risultare improprio: l’era dei tassi zero e della pressione al rialzo sull’azionario (ai limiti della bolla) favorisce più gli intermediari che gli investitori e – dietro i record a raffica, soprattutto a Wall Street – espone i listini a elevati rischi di volatilità.

Last but not least, in estate comincerà la sempre più lunga campagna elettorale per la Casa Bianca: e regola non scritta vuole che il presidente della Fed (soprattutto se nominato dal Presidente in carica, com’è il caso della Yellen) non tolga gas all’economia nella fase elettorale. È vero che Obama non correrà più per la rielezione, ma è difficile che la Yellen – “colomba democrat” – volti la testa dall’altra parte quando due fat cats conservatori Edward e David Koch hanno annunciato di voler mobilitare quasi 900 milioni di dollari: difficilmente a favore della probabile front-runner democratica Hillary Clinton.