Anno nuovo, guai vecchi. Mentre Mario Draghi comincia la manovra di avvicinamento verso il Quirinale, con chiara apertura in tal senso anche da parte di Matteo Renzi (negare di voler diventare un politico, di fatto, è nulla più che un abboccamento), nel mondo le storture dovute alla distorsione della politica monetaria e dei tassi operata dalle banche centrali cominciano a mietere le prime vittime eccellenti. Gli ultimi dati resi disponibili dal governo giapponese, infatti, confermano che gli investitori francesi – forse per un senso di solidarietà socialista e keynesiana – hanno ricominciato a comprare titoli nipponici, esattamente come fecero sul finire del 2013 e questo non deve affatto farci stare tranquilli.



Già, perché come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, gli stessi investitori francesi scaricarono quei titoli pochi mesi dopo, esattamente nel gennaio e febbraio 2014 senza tanti complimenti. Stando a una valutazione di Nomura, «la Francia è stata un grande acquirente netto alla fine del 2013 e ora sta comportandosi nella stessa maniera, il problema è che se decidesse ancora una volta di liberarsi in tempi rapidi delle proprie posizioni di investimento, il mercato giapponese sarebbe pronto per un calo». Insomma, esattamente come nel novembre e dicembre di ormai due anni fa, i francesi comprano titoli nipponici col badile, tanto che durante quel bimestre l’indice Topix salì del 9,1%.



Peccato che nel giro di un attimo si tramutarono in net sellers, schiantando la gauge dell’equity giapponese del 7%: il rinnovato trend è cominciato lo scorso ottobre, quando la Banca centrale ha comunicato l’aumento del programma di stimolo dell’economia e ora Nomura teme che, al netto dei risultati macro molto deludenti ottenuti dall’Abenomics e di cui abbiamo parlato diffusamente nei giorni scorsi, la storia possa ripetersi, questa volta però in un ambiente finanziario già stressato e con gli altri investitori esteri che sono già fuggiti a gambe levate dal Giappone, riducendo sul finire dell’anno le loro posizioni aperte su equities nipponiche del 94%.



Per Jun Yunoki, strategist della banca d’affari, «la Francia ha avuto sul finire del 2013 un atteggiamento molto ondivago, visto che nell’arco di due mesi si è tramutata da acquirente netto e per grandi quantità di titoli giapponesi a venditore netto. Insomma, entra ed esce dal mercato in archi temporali molto ristretti e compra per quantitativi molto superiori alla media, quindi per questo siamo molto preoccupati. Se per caso decidessero ancora di chiudere le loro posizioni, certamente il mercato nipponico si preparerebbe per un crollo».

Direte voi, il mercato giapponese è un opportunità, essendo di fatto manipolato dalla Banca centrale, per questo i francesi comprano: non proprio, guardate il secondo grafico e capirete da soli. Ovvero, siamo di fronte al più classico caso dei due ubriachi che si reggono l’un l’altro, con i titoli francesi primi della lista della spesa del portafoglio di investimento nipponico. Proprio come i due ubriaconi, però, se casca uno anche l’altro finisce per terra, essendo gli investimenti di Tokyo in azioni francesi ai massimi dal gennaio 2009. E se casca anche la Borsa giapponese, si rischia di farsi male parecchio tutti quanti.

Ma anche altri segnali ci dimostrano come il quadro macro a livello globale sia quantomeno traballante, soprattutto per quanto riguarda uno dei grandi driver di quest’ultimo periodo: ovvero, il prezzo del petrolio. Al netto dei cali record di fine anno, infatti, a far sperare molti Stati esportatori in un rimbalzo non troppo distante nel tempo c’era il numero record di scommesse rialziste da parte dei fondi speculativi, gente che di solito o ci vede lungo e o si muove in maniera così pesante da indurre aumenti quasi autoalimentanti.

Bene, stando a dati resi noti ieri da Bloomberg, gli hedge funds hanno cominciato a stancarsi di andare long sul greggio e stanno già riducendo le loro posizioni rialziste sul Wti statunitense per la prima volta nelle ultime quattro settimane, tagliando le loro detenzioni del 5% nei soli cinque giorni di trading che hanno portato al 23 dicembre scorso, -10.784 contratti per un totale che ora è di 206.939 posizioni long ancora aperte.

Per Phi Flynn del Price Futures Group di Chicago, «i traders hanno deciso che quando è troppo, è troppo. Si sono stancati di provare a dare un floor alla caduta del prezzo del petrolio, hanno fallito. Ciò che si può dire è che il fondo non è stato ancora toccato e che c’è ancora parecchio spazio di caduta davanti a noi». Nei primi due grafici a fondo pagina vediamo la situazione attuale e quella del 2009: ci fanno intuire quanto ancora il prezzo del petrolio possa andare al ribasso. Ma anche dalla Cina non arrivano buone nuove di inizio anno, visto che nonostante il bluff della Banca centrale che ha ridotto a zero l’obbligo di riserva per gli istituti non bancari, facendo sperare il mercato in una sorta di Qe, i default di gruppi corporate cominciano a farsi sempre più dolorosi.

La società immobiliare Kaisa Group, infatti, ha fatto default su un prestito dal controvalore di 51,6 milioni di dollari, innescato dai pagamenti forzati operati dopo le dimissioni del presidente lo scorso 31 dicembre. Come ci mostrano il terzo e il quarto grafico, il titolo del gruppo ha perso il 50% del valore solo nel mese di dicembre e ora è stato sospeso alla Borsa di Hong Kong il 29 dicembre scorso, mentre l’obbligazione con scadenza 2018 è letteralmente collassata e ora ha un prezzo di 43 centesimi sul dollaro, con un rendimento implicito di oltre il 42%. E pensate che quella carta solo nel mese di marzo fu venduta agli investitori alla pari sul dollaro e soltanto il 31 dicembre era ancora a 66,263 centesimi sul biglietto verde: un’accelerazione mai vista, forse nemmeno con Enron.

Di più, l’obbligazione da 500 milioni di dollari al 10,25% scadenza 2020 è crollata a 38,025 centesimi sul dollaro, con un rendimento implicito del 39,601% e anche in questo caso fu venduta al 100% sul dollaro nel gennaio 2013. Per Standard&Poor’s, «Kaisa dovrà affrontare nuove e pesanti sfide nei prossimi giorni», mentre Moody’s ha tagliato il rating della compagnia da B1 a B3 visto che già due progetti immobiliari nel distretto di Longgang sono stati bloccati e varie licenze e acquisizioni di terreni non sono state accettate dai regolatori.

 

 

 

 

E poteva forse mancare l’eurozona in questo novero di rinnovate preoccupazioni? No, ovviamente. L’indice Pmi italiano di dicembre è infatti sceso a 48,4 dai 49 di novembre, così come quello della Francia (a 47,5 da 48,4), mentre il Pmi tedesco si assesta a 51,2 punti (come il consensus), ma leggermente peggiore delle attese, invece, è stato il dato Pmi manifatturiero della zona Euro (50,6 rispetto a 50,8). «Ancora una volta le imprese manifatturiere dell’Eurozona hanno registrato una stagnazione dell’attività. Di conseguenza il 2014, iniziato positivamente, è lentamente peggiorato sino allo stallo durante la seconda parte dell’anno», ha osservato il capo economista di Markit, Chris Williamson, puntualizzando che la debolezza della produzione, assieme alla scarsa crescita del settore dei servizi segnalata dalla stima preliminare, suggerisce che durante il quarto trimestre l’economia dell’Eurozona è cresciuta di appena lo 0,1%.

Per l’esperto, la crisi in Ucraina e il rinnovato pessimismo circa le abilità degli strateghi politici dell’Eurozona nel ravvivare le sorti dell’economia della regione, hanno incrementato l’incertezza, causando una maggiore avversione al rischio e una riduzione dei piani di espansione da parte delle imprese. Comunque, sia in Spagna sia nei Paesi Bassi e in Irlanda, dove la produzione manifatturiera e le esportazioni hanno continuato a crescere, continuano a essere presenti alcuni segnali positivi.

Totalmente differente la situazione in Francia, Italia, Austria e Grecia, dove la contrazione dei nuovi ordini ha avuto il suo impatto sulla produzione: rimane, infine, fonte di forte preoccupazione l’attuale debolezza del settore manifatturiero della Germania, anche se la prima crescita dei nuovi ordini in quattro mesi indica che il livello della componente potrebbe cambiare tendenza. «Tuttavia, se tutto va bene, dovremmo osservare una crescita maggiore durante i prossimi mesi. I costi minori, collegati al crollo del prezzo del greggio, stanno aiutando i manifatturieri a ridurre i loro prezzi di vendita. Inoltre, la contrazione del prezzo del carburante dovrebbe favorire il consumo da parte dei clienti», ha sottolineato Williamson, precisando che aumentano le speranze di stimoli politici più aggressivi da parte della Bce nel 2015, dopo aver valutato gli interventi in atto.

Ed ecco che torna il concetto manipolatorio delle banche centrali, questa volta esplicitato dalle recenti dichiarazioni del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, che in un’intervista al quotidiano finanziario tedesco Handelsblatt ha spiegato che i rischi sulla capacità dell’Eurotower di adempiere al proprio mandato di stabilità dei prezzi sono aumentati nel corso degli ultimi sei mesi.

Draghi ha così affermato che l’Eurotower si sta preparando a «modificare il volume, le tempistiche e il contenuto delle misure di stimolo agli inizi del 2015, se necessario, per rispondere a un periodo di inflazione troppo bassa», ma ha rimproverato i governi europei per la lentezza nelle riforme. Guarda caso, al netto di condizioni macro da mani nei capelli, le dichiarazioni del governatore hanno fatto in modo che il rendimento del Btp decennale abbia aggiornato il minimo storico all’1,803% ieri mattina, con lo spread Btp/Bund in netto calo a 126 punti base, mentre il costo di finanziamento del Bonos spagnolo ha toccato l’1,53% e il differenziale con il bond di Berlino è andato addirittura sotto quota 100, a 99 punti base.

Insomma, follia allo stato puro stante i fondamentali macro di Madrid, ma tant’è, nel nuovo regime finanziario generato dalle Banche centrali, il concetto stesso di libero mercato è stato eliminato. Ora attendiamo la riunione del board del 22 gennaio per vedere se quello di Mario Draghi è l’ennesimo bluff per guadagnare tempo o se davvero comincerà a monetizzare il debito sovrano dell’Ue. Ipotesi ora non più troppo peregrina e che potrebbe vedere l’Ue trasformarsi in tempi rapidi in un nuovo Giappone, visto che comprare obbligazioni governative quando lo spread tra Bonos e Bund è sotto quota 100 appare tutto tranne che un qualcosa di utile per innescare crescita. Staremo a vedere.