Ora è ufficiale, l’eurozona è entrata in deflazione a dicembre, per la prima volta dal 2009, come ci dimostra il grafico a fondo pagina. Stando alla stima preliminare dell’Eurostat, i prezzi al consumo hanno registrato un calo dello 0,2% su base annua, a fronte del +0,3% di novembre, mentre i prezzi dell’energia, sempre lo scorso mese, sono scesi del 6,3% a livello annuale: l’inflazione core si è invece attestata al +0,8% tendenziale. Un nuovo segnale di rischio di deflazione, dunque, che potrebbe spingere la Banca centrale europea ad adottare nuove misure per favorire una ripresa dei prezzi già nel corso del prossimo meeting del 22 gennaio, avendo l’istituto come obiettivo di stabilità un livello di inflazione inferiore ma vicina al 2%. 



«Il calo dei prezzi al consumo dell’Eurozona in territorio negativo potrebbe annunciare l’inizio di una lunga e dannosa lotta alla deflazione», ha affermato l’esperto di Capital Economics, Jonathan Loynes, a detta del quale in assenza di un rimbalzo delle quotazioni del petrolio, gli effetti sul comparto energetico potrebbero spingere l’indice ulteriormente al ribasso verso -1% nei primi mesi dell’anno. Pertanto, le aspettative di un Quantitative easing anche nell’area euro si fanno sempre più concrete, tanto che, in ossequio al mantra del “bad news is a good news”, dopo il dato il Ftse Mib è tornato in territorio positivo e anche Parigi, nonostante la carneficina alla redazione di “Charlie Hebdo” ha viaggiato abbondantemente sopra il punto percentuale, mentre il rendimento del Bund decennale è rimasto poco mosso allo 0,445%, a brevissima distanza dal nuovo minimo storico segnato proprio ieri mattina a quota 0,442%, a poche ore dalla prima asta dell’anno, con gli Schatz a scadenza dicembre 2016 che scambiavano intorno a -0,10%. 



Già, perché nella situazione attuale di completa distorsione dei mercati, i paesi più ricchi del mondo stanno di fatto finanziandosi gratis, se non addirittura guadagnando per emettere debito e custodire i soldi di chi lo compra accettando tassi negativi. Presi nel loro insieme, infatti, i rendimenti del decennale di Usa, Giappone e Germania sono scesi sotto l’1% per la prima volta da sempre, segnale chiaro che gli investitori hanno paura del futuro e danno vita alla classica fuga verso i beni rifugio, tanto che JP Morgan calcola un tasso di inflazione a livello globale sotto l’1% se il petrolio resterà sotto i 60 dollari al barile. 



Non è cosa da prendere sotto gamba, perché sia durante la Grande Depressione che nel picco della crisi del 2008, il tasso per il cosiddetto “Gruppo dei tre” era sopra il 2%. Ieri l’indice Global Broad Market Sovereign Plus di Merrill Lynch aveva un rendimento dell’1,28%, il livello più basso da quando si è comincio a tracciare il dato nel 1996. 

Insomma, la situazione sembra paradossalmente giocare a favore delle aspettative di Mario Draghi e pare garantirgli un assist per spezzare la resistenza della Bundesbank verso uno stimolo monetario, ma non è affatto detto che sia così, in realtà. Alla Bce si starebbe infatti lavorando a un piano con tre interventi alternativi proprio per blandire un po’ i falchi tedeschi e non dover arrivare allo showdown, al muro contro muro: la prima opzione sarebbe quella di pompare liquidità nel sistema finanziario attraverso acquisti diretto dell’Eurotower da ogni Stato membro in base al criterio pro-quota di partecipazione azionaria; la seconda, vedrebbe la Banca centrale comprare solo bond governativi con rating AAA, portando i rendimenti a zero o in negativo nella speranza che così gli investitori vadano quindi a comprare debito periferico o corporate in cerca di rendimento; la terza sarebbe simile alla prima ma sarebbero le varie Banche centrali dell’eurozona a comprare, di fatto evitando la mutualizzazione del rischio che tanto spaventa la Germania. 

In parole povere, la Bce non ha affatto deciso e mancano due settimane alla riunione del board. Il problema, però, è altro, come vi ripeto da settimane: ovvero, acquistare bond da banche e altre istituzioni finanziarie sperando che questo garantisca una crescita nella fornitura di moneta e quindi l’aumento del credito all’economia reale è una pia illusione nelle condizioni in cui siamo. Ovvero, con i tassi sui depositi in negativo decisi dalla Bce lo scorso giugno, le banche hanno poco incentivo a vendere un asset che hanno comprato e detengono per uno scopo a fronte di soldi che dovranno parcheggiare alla Bce pagando un tasso del -0,2% a fronte della cessione di un asset che è di fatto, grazie alla garanzia implicita offerta dalla Bce stessa, risk-free. 

Certo, l’Eurotower ha due alternative, ma sono rischiose: la prima è acquistare i bond con un premio che compensi il tasso negativo di deposito, ma verrebbe visto come l’ennesimo regalo alle banche, mentre la seconda sarebbe acquistare le obbligazioni direttamente dagli asset managers, bypassando gli istituti di credito, scelta che però rappresenterebbe un pericoloso precedente. Insomma, a Francoforte sono in alto mare, tanto più che la seconda opzione, quella dell’acquisto unicamente di bond con rating AAA limiterebbe di molto la platea degli asset acquistabili e depotenzierebbe l’azione della Bce sul nascere, già messa in discussione dalla scelta di acquistare covered bonds e Abs rivelatasi un fiasco, oltre che trovare la Germania contraria visto che vedrebbe monetizzate praticamente il 90% delle sue emissioni per il 2015. 

Attenti però a perdere troppo tempo, perché come vi dico da almeno dieci giorni la Grecia non ha forse più il potenziale di squassare l’eurozona ma è il detonatore perfetto, tanto che ieri la curva tra bond ellenico a 3 e 10 anni era invertita di 400 punti base (con la carta a dieci anni che ieri è tornata sopra il 10% di rendimento per la prima volta dopo quindici mesi), sintomo di terrore tra chi investe. Questo anche perché stando a una ricerca della Oxford Economics, nonostante i cali nei sondaggi di questi giorni, Syriza sarebbe in grado di avere un mandato chiaro a governare con il 36% confermato dagli ultimi venti opinion polls e proprio nel corso dell’ultimo weekend il suo leader, Alex Tsipras, ha detto chiaro e tondo che «la Bce non potrà escludere la Grecia se deciderà di muoversi verso un piano di Quantitative easing per stimolare la traballante economia dell’eurozona. Quel piano dovrà includere anche l’acquisto diretto di bond governativi greci. L’austerity è irrazionale e distruttiva, per ripagare il debito una ristrutturazione molto ampia è necessaria». Musica per le orecchie tedesche, immagino e anche per i detentori di bond ellenici, visto il crollo del prezzo come ci dimostra il grafico a fondo pagina. 

Peccato che proprio dalla Germania, esattamente dal Kiel Insitute for the World Economy, arrivino cifre che dovrebbero far riflettere il dinamico duo Merkel-Schaeuble. Stando a calcoli dell’economista ed esperto finanziario, Jens Boysen-Hogrefe, infatti, se si arrivasse a una ristrutturazione del debito greco come chiesto da Alexis Tsipras, con relativo haircut sulle detenzioni, la Germania pagherebbe un prezzo molto alto, circa 40 miliardi di euro per permettere un taglio dei rendimenti che riduca la ratio debito/Pil greca dall’attuale 175% al 90%. Ma se la Grecia smettesse del tutto di servire il proprio debito, ovvero non si limitasse all’haircut ma uscisse dall’euro, divenendo di fatto insolvente, il conto sarebbe ancora più salato per le casse della Repubblica Federale, qualcosa come 76 miliardi di euro. 

 

Attenzione, quindi, come vi dicevo non si può prendere ciò che accade ad Atene troppo sottogamba. Per Barry Eichengreen, storico dell’economia all’università di Berkley, «un’uscita della Grecia dall’euro porterebbe a bank-run, al collasso del mercato azionario nazionale e all’imposizione di controlli sul capitale, oltre a lasciare negli investitori un senso di incertezza su chi, a quel punto, potrà essere il prossimo ad andarsene, favorendo gli attacchi speculativi. Nel breve termine, un “Grexit” rappresenterebbe una Lehman Brothers al quadrato. Penso che i politici europei debbano ingoiare un altro rospo e cercare un compromesso, perché se tenere insieme l’eurozona è costoso e difficile e doloroso, vederla andare in pezzi sarebbe ancora più costoso e difficile». 

Per Jeffrey Frankel, docente di economia ad Harvard, siamo di fronte a un nuovo 2011, poiché «gli investitori hanno messo molto denaro nei mercati europei negli ultimi due anni, durante i quali la crisi si è acuita. Ora temo ci sarà una ripetizione dei periodi di turbolenze e gli spread tra i bond sovrani dell’eurozona potrebbero ampliarsi di molto». Ancora più netto Kenneth Rogoff, ex capo economista del Fmi e ora docente ad Harvard, a detta del quale «l’euro è un disastro storico, ma questo non significa che sia facile superarlo per tornare alle valute nazionali. Non penso che ci sia una via d’uscita alla crisi dell’euro. Penso che anche l’idea di un Qe da parte della Bce abbia poche speranza di successo, la cosa migliore per assicurare la sopravvivenza dell’euro è che ogni paese membro attivi proprie politiche fiscali per aumentare la domanda, una delle quali potrebbe essere un taglio netto dell’Iva per i prossimi cinque anni per generare un aumento della spesa dei consumatori». E chi glielo va a dire a Krugman e ai keynesiani di casa nostra che la ricetta non è soldi a pioggia ma un taglio delle tasse? 

E attenzione, perché la Grecia rischia di non essere il solo potenziale innesco di una nuova ondata di crisi nell’eurozona. Pur non facendone parte e nonostante le patetiche sparate degne della propaganda sovietica di chi ormai vede in Vladimir Putin l’incarnazione del bene e della perfezione assoluta, la Russia non solo non ha battuto gli attacchi della speculazione contro il rublo, ma nel tentativo di farlo si è anche svenata a livello di riserve. La moneta russa, infatti, è già tornata in area 63,5 sul dollaro, il decennale sovrano paga un rendimento del 14% e, soprattutto, come ci mostra il grafico a fondo pagina, martedì il cds a cinque anni ha chiuso le contrattazioni a 595 punti base, il massimo da marzo 2009, dopo aver toccato il massimo intraday di 630 punti base, 100 punti base di aumento in poche ore (per Markit l’implicita accettazione da parte del mercato di un 32% di aspettativa di default nei prossimi cinque anni). 

In più, come vi annunciavo, nel tentativo di fermare il crollo del rublo, la Banca centrale russa ha bruciato 26 miliardi di dollari di riserve nelle due settimane terminate il 26 dicembre, il livello di erosione più veloce dall’inizio della crisi ucraina: le riserve totali sono scese da 511 miliardi di dollari a 388 in un solo anno e, stando a calcoli dell’Institute for International Finance, la linea di pericolo si toccherà quando e se si arrivasse a quota 330 miliardi, viste le criticità di finanziamento delle aziende russe e la continua fuga di capitali. 

 

 

Inoltre, il rublo sta seguendo la stessa dinamica del Brent, il quale è sceso ai minimi da cinque anni: se il petrolio scenderà a 45 dollari al barile o meno e si attesterà su quel livello, la Russia andrà incontro a problemi molto seri, dato che la Banca centrale proverà a placare la volatilità ma alla fine dovrà lasciare svalutare il rublo e questo potrebbe portare l’inflazione al 20%. Senza scordare che la Banca centrale ha dato vita a uno “scenario di emergenza” in base al quale se il prezzo del petrolio resterà a 60 dollari, il Pil potrebbe contrarsi del 4,7% quest’anno, con l’aggravante del continuo innalzamento dei tassi di interesse, l’ultimo risalente a dicembre quando salirono al 17%: ogni punto percentuale di aumento, erode l’0,8% di Pil l’anno successivo. Inoltre, nel 2008 la Russia spese 170 miliardi di dollari per salvare il sistema bancario ma stando a calcoli di Bnp Paribas, oggi nemmeno tutte le riserve basterebbero a coprire il debito esterno, visto che il loro livello di esposizione alla leva è il doppio di sette anni fa (compagni sì, ma far soldi con l’azzardo morale piace a tutti). 

C’è poi il debito estero totale di aziende ed entità statali russe che ammonta a 654 miliardi di dollari, 10 dei quali vanno ripagati ogni mese, poiché essendo tagliate fuori dai mercati di capitale non possono fare roll-over sui prestiti. Inoltre, il calo del prezzo del petrolio potrebbe lasciare Mosca con un deficit pari al 3,5% del Pil, visto che ogni 10 dollari di calo taglia gli introiti dell’export per un valore pari al 2% del Pil: unite a questo le cronache fuga di capitali, gli inflows inesistenti a causa delle sanzioni e avrete un gap di finanziamento che presto potrebbe raggiungere il 10% del Pil, insomma la tempesta perfetta per il rublo. 

In compenso, la speculazione è pronta, visto che dopo la crisi del 2008-2009 i titoli azionari russi, acquistabili a prezzo di saldo in un outlet, hanno garantito guadagni del 1000%: «Bisogna solo aspettare che il prezzo del petrolio tocchi il fondo», si fa sfuggire un trader contattato a Londra da IlSussidiario.net sotto il vincolo dell’anomimato. 

Attenzione quindi, mancano due settimane al 22 gennaio e alla riunione del board della Bce: temo che ne vedremo delle belle, per modo di dire, sui mercati.