Le previsioni degli economisti, disse il Nobel John Kenneth Galbraith, servono solo a un obiettivo: riabilitare agli occhi del pubblico le profezie degli astrologi, spesso meno sballate dei vaticini dei guru della triste scienza. Un supporto a questa teoria, ingenerosa e paradossale, è arrivato in questo turbolento avvio del 2015. Non c’è economista o commentatore che non abbia previsto l’aumento dei tassi americani. Ma, a sorpresa, le scelte degli operatori sono per ora andate in altro modo: i T-bond Usa decennali veleggiano sotto il 2%. Il mercato, insomma, non crede che la Federal Reserve possa permettersi di alzare più di tanto in tassi nel 2015. Al più, suggeriscono i prezzi del listino, a fine anno il tasso di sconto arriverà allo 0,50%, un quarto in più dei valori minimi attuali. Ma, cosa che conta ben di più, i tassi di mercato resteranno bassi, poco sopra il 2%, perché l’economia non è in grado di sostenere rendimenti superiori.



Insomma, per ora hanno avuto ragione i pessimisti. Con grande soddisfazione dei contrarian, cioè quegli investitori che amano scommettere contro le previsioni: nella prima settimana del 2015, chi ha puntato sul calo dei titoli del Tesoro Usa (inversamente proporzionale alla crescita dei rendimenti) ha realizzato un guadagno del 4,3%, ovvero il 32% su base annua. Mica male. Certo, almeno per ora l’andamento dell’economia Usa non giustifica tanto pessimismo. Ma è tanta la paura che i mali dell’Eurozona possano contagiare la locomotiva Usa.



Perdonate quest’approccio tecnico, da addetto ai lavori. Ma forse questo esempio serve a dare la misura dello sconcerto che domina oggi il mercato obbligazionario, alla vigilia della grande battaglia, politica più che economica, che si profila sul fronte del debito. In Europa, più che altrove. Il quadro, a prima vista, è largamente condiviso. Di fronte al calo drammatico e impressionante dell’inflazione (-0,2% a dicembre), cui contribuisce il tracollo del greggio, è ormai scontato che la Bce si accinga ad adottare “misure innovative”. Tali interventi non potranno non riguardare il mercato dei titoli di Stato, l’unico in grado di rendere possibile l’aumento del bilancio della Bce di almeno mille miliardi, come ventilato da Mario Draghi, a sua volta misura necessaria per sostenere il risveglio di un’economia intorpidita, a un passo dal baratro della deflazione.



Meno scontate, per la verità, sono le modalità che potrà assumere il Qe. Anche perché a creare le premesse della tempesta perfetta contribuisce l’approssimarsi del voto in Grecia ove, anche per le provocazioni in arrivo dalla Germania, sta prendendo consistenza la previsione di una vittoria di Syriza, il partito della sinistra greca che intende ridiscutere le modalità del debito greco. Il risultato? Un’impressionante fuga dall’investimento di rischio, culminata in quotazioni surreali dei titoli del debito: le emissioni di Austria, Belgio, Finlandia, Francia e Olanda sono ai minimi storici. Così come il Bund decennale tedesco, scivolato a 0,44%, impegnato in una corsa verso il tasso zero assieme al Jgb giapponese, che rende lo 0,364%.

La decisione della Bce di imporre un tasso di interesse negativo ai depositi presso la banca centrale, studiato per spingere le banche a investire nell’economia reale, ha prodotto un effetto paradossale. Gestori e banchieri vanno a caccia di altri “materassi”, un po’ meno cari, ove proteggere i capitali dalla tempesta. E coì non stupisce che la grande finanza abbia fatto la coda per sottoscrivere le obbligazioni tedesche a due anni che prevedono un rendimento negativo dello 0,11%. O che sia andata a ruba l’emissione del bond a 10 anni dell’Irlanda, collocato a un interesse dello 0,875%. Un balzo sbalorditivo se si pensa che, un paio di anni fa, la carta di Dublino sfiorava il 10%.

Il miracolo ha una spiegazione semplice: l’attesa del Quantitative easing, ovvero di un paracadute che dovrebbe garantire (il condizionale è d’obbligo finché non si conosceranno le caratteristiche dell’operazione che dovrebbe prendere il via il prossimo 22 gennaio) il riacquisto delle emissioni dell’Eurozona. Ma attenzione: il “miracolo” rischia di limitare i suoi benefici al mondo finanziario, in particolare nei confronti della fascia di popolazione che possiede azioni o altri assets. L’effetto nei confronti dell’economia reale potrebbe essere assai più modesto.

Il sistema ha funzionato bene in America, anche grazie alle caratteristiche del mercato finanziario assai meno bancocentrico di quello europeo. In Usa, insomma, il Qe ha rimesso in moto il mercato immobiliare e i crediti del settore auto. In Europa, al contrario, l’80% del finanziamento delle piccole e medie imprese, da cui dipende l’aumento dell’occupazione, rischia di fermarsi in banca, settore ancora convalescente o peggio, come ha dimostrato l’esame della Bce.

L’ammontare del credito erogato all’economia è oggi inferiore di 600 miliardi rispetto all’inizio della crisi. Difficile che il Qe da solo possa colmare il “buco”. Un intervento inutile? No, ma se non sarà accompagnato da un forte intervento di politica fiscale e dalle riforme necessarie, sia in Italia e Francia che in Germania, l’effetto sarà molto modesto.

Tifiamo per il Qe di Draghi, insomma. Ma con realismo: per uscire dalla crisi non basta un’aspirina, ma una visione politica forte, sempre più necessaria e urgente, come ci ricorda l’eco dei proiettili assassini contro Charlie Hebdo.