Nuova giornata sugli scudi per i mercati finanziari, caratterizzata dalla discesa decisa dell’euro sotto quota 1,20 e da un netto rimbalzo dei listini azionari (con Piazza Affari +3,7% in chiusura, leader quotidiana fra le euro-piazze, mentre Wall Street è stata in buon territorio positivo fino alla chiusura). 



Le attese crescenti di un Quantitative easing dell’euro sono state rafforzate fin dalla mattinata di ieri dalla risposta data dal presidente della Bce, Mario Draghi all’interrogazione di un europarlamentare. Draghi ha confermato che l’Eurotower tornerà «all’inizio dell’anno» a valutare lo stimolo monetario fornito nella seconda parte del 2014, e se dovesse servire potrebbe lanciare misure «che includono l’acquisto di vari asset, inclusi i bond sovrani». Se il consiglio Bce è convocato per il 22 gennaio, già l’altro ieri la Fed ha pubblicato le minute del suo board (Fomc) riunitosi lo scorso 16-17 dicembre.



Si evince chiaramente che la banca centrale del dollaro, guidata da Janet Yellen, non ha fretta nel rialzare i tassi, dando virtualmente appuntamento per aprile a mercati che restano quindi convinti di poter contare su mesi di liquidità abbondante sulle due sponde dell’Atlantico. Naturale che anche lo spread italiano si sia calmato, ripiegando con decisione fino sotto quota 133. Resta debole e contrastato il petrolio: con il Brent a cavallo di quota 50 euro: ulteriore boost per le stime positive per chi vede nella “deflazione” della materie prime non un sintomo patologico ma una premessa terapeutica per la recessione che colpisce l’Europa (una stima informale Fmi calcola già in un +0,3% l’effetto-greggio per il Oil mondiale). (Redazione)



I temi che ci appaiono rilevanti per il 2015 – nell’opinione degli osservatori di cose finanziarie in Europa e a Wall Street – sono: evoluzione politica dell’Europa, gestione dell’uscita dalla deflazione in Giappone, trasformazione dell’economia cinese, crescita economica in Usa. A latere assume un buon rilievo l’andamento del prezzo delle materie prime (non solo energetiche).

Europa “make or break”

Dal 2014 sappiamo che, soprattutto grazie all’intervento della Banca centrale europea (ormai nella memoria di tutti il “whatever it takes” di Draghi), i peggiori momenti della crisi (sui mercati finanziari) si sono allontanati, sono esplicitamente gestiti, quindi la preoccupazione che leggevamo è abbastanza sfumata (ne racconta qualcosa il tasso sui Btp decennali italiani, inferiore al 2% nonostante un rating sul credito ormai marginalmente entro il limite dell’investment grade). Perché allora “make or break”, “o la va o la spacca” nel 2015?

I mercati finanziari sono un riflesso, a volte molto, troppo, sfumato dell’economia reale. Oggi il relativo ottimismo mostrato dalle quotazioni del debito pubblico della periferia Europea sembra preferire logiche puramente finanziarie (attenzione totalmente sulla banca centrale), a prescindere dall’economia reale. Il 2015 secondo noi sarà l’anno in cui le valutazioni di economia reale riemergeranno, se non altro per il loro significato a livello di equilibri politici continentali, in un momento un cui le verifiche elettorali non saranno assenti (Grecia in gennaio, Spagna nell’ultimo trimestre, Italia subito per il Quirinale, non improbabile a livello di voto politico), e non potranno non essere influenzate dalla situazione dell’economia reale (il sentimento antieuropeo ormai ben diffuso, anche in Germania, a cosa altro dovrebbe essere collegato?).

Che percorso di eventi possiamo immaginare post-elezioni greche? Le dimissioni di Giorgio Napolitano e la possibile scelta di Matteo Renzi di affrontare l’elettorato sono da affrontare in totale tranquillità? Guardando agli ultimi esiti elettorali nazionali, non ne abbiamo l’impressione, la mutevolezza delle preferenze elettorali potrebbe non essere ancora spenta. Sempre pensando all’anno, una difficoltà politica italiana ha la capacità di produrre effetti indotti in altre parti d’Europa: in Francia, ad esempio.

A questo punto il pronostico preoccupato di Helmut Kohl (il cancelliere della caduta del Muro) sui risultati che potrà ottenere la sua ex delfina Angela Merkel si avvicinerebbe alla realizzazione. Governare quasi solo sulla base del consenso in un momento storico in cui la realtà richiede anche scelte originali aiuta il risveglio dei nazionalismi (ormai in Europa non c’é più dubbio su questo): la prossima crisi europea potrebbe avere origine esclusivamente politica.

Sotto il profilo puramente monetario, ci attendiamo che la Bce decida e inizi il suo Quantitative eeasing (Qe) entro gennaio, probabilmente in modo più graduale del modo seguito a suo tempo negli Usa, sicuramente rispetto al Giappone. Il vero effetto di tale manovra sarà però ottenuto solo quando sarà diffusa la convinzione che l’azione sarà voluta all’unanimità e senza dubbi da tutte le componenti decisorie. Non è ancora questa la nostra situazione, inizieremo l’anno quindi ancora con prevalenti timori deflazionistici e risultati di breve termine delle azioni di Francoforte (per breve termine intendo risultati non stabili, che non avviano un nuovo trend credibile, rimangono risultati utili più per un trader che per un investitore).

Volendo cercare di comprendere il motivo del disaccordo europeo, forse lo possiamo rintracciare nella sfiducia di una parte dei paesi europei nei confronti della capacità e volontà dei cosiddetti periferici nell’attuare le riforme strutturali individuate. In un ambiente deflattivo come quello attuale, però, è molto probabile che nessuno voglia avviare manovre ulteriormente frenanti (le riforme strutturali appunto). La funzione di un Quantitative easing credibile e ampiamente condiviso diverrebbe soprattutto quella di sostenere la continuazione delle riforme strutturali individuate e anche già iniziate, bilanciandone gli effetti economicamente restrittivi. Il passo compiuto verso una più completa Unione bancaria europea va letto positivamente, visto che affronta una delle carenze ancora presenti nel progetto dell’euro.

In sintesi, l’incertezza che prevedibilmente continuerà a toccare l’Europa deriva in parte dall’ancora incompleta governance politica ed economica dell’area (il passo verso l’Unione bancaria è indispensabile, ma è così chiaro da essere ben compreso dagli elettori?), in parte dai dubbi sulla sostenibilità del debito pubblico di alcuni stati membri della comunità.

 

Fuori dall’Europa: Usa in piena occupazione entro l’anno

Uscendo dall’Europa, troviamo il Giappone in una situazione simile, ma affrontata in modo più chiaro (almeno i problemi di governance di cui sopra, qui non esistono). Qui ci aspettiamo una continuazione della politica monetaria fortemente espansiva (ulteriori mosse nel primo trimestre dell’anno) e l’allontanamento del momento in cui la politica fiscale dovrebbe iniziare a correggere lo squilibro nei conti pubblici (il suggerimento di innalzare l’aliquota Iva non è stato proposto da questo governo, per ora la prima mossa è stata fatta, la seconda già rinviata, l’impressione è che molti non la vogliano nemmeno vedere). Il nostro target sul cambio dollaro/yen è di 125 (con estremo possibile entro un ulteriore 10% di debolezza). Per quanto riguarda il Giappone, l’incertezza principale che possiamo anticipare riguarda l’emergere di futuri dubbi sull’efficacia della politica economica oggi dichiarata e perseguita.

La Cina non sta facendo mistero che il suo obiettivo di crescita economica sia in calo e che continuerà a esserlo. Gli investimenti infrastrutturali sono molto avanzati, l’economia si sta convertendo ai consumi finali, questa trasformazione ancora agli inizi richiederà tempo per essere completata. La fase di transizione che la Cina sta attraversando, da economia guidata in forte misura dagli investimenti interni e dalle esportazioni a un’economia nella quale il peso dei consumi interni sarà in crescita, potrebbe non essere così lineare come la sua descrizione, gli eventuali fisiologici alti e bassi possono essere fonti di turbolenze di breve termine sui mercati finanziari.

Gli Stati Uniti stanno ormai vivendo una situazione economica rispetto alla quale il policy maker si deve domandare principalmente: “Cosa devo fare (o non fare) perché la situazione attuale continui?”. La piena occupazione potrebbe essere raggiunta già nella prima metà del 2015, logicamente tutta la curva dei tassi dovrebbe spostarsi al rialzo, il mercato azionario continuare nella sua positiva performance, riportandoci però quella volatilità che stavamo dimenticando.

Euro/dollaro: primo check a 1,10

L’obiettivo che abbiamo sul cambio con l’euro vede un primo livello attorno a 1,10, superabile con maggiore o minore facilità a seconda dei comportamenti di casa nostra (intendo Europa, dove comunque l’Italia ha un peso non da poco).

La divergenza di politica economica che verrà seguita nelle diverse parti del mondo, assieme all’uscita dalla politica monetaria eccezionale seguita dagli Usa per ormai molti anni, sono eventi che assieme non hanno precedenti storici, gli effetti del cambiamento con molto anticipo e ampiamente annunciato non vanno sottovalutati. D’altra parte non dovrebbe nemmeno essere sopravvalutata la variazione di politica realizzabile entro il 2015, l’impatto delle politiche seguite nel resto del mondo potrebbe produrre un effetto calmieratore anche sugli Usa (detta in termini spicci: le politiche monetarie espansive attese in Europa e Giappone, con i loro effetti sui relativi cambi contro dollaro, produrranno un forte flusso di investimenti almeno di tesoreria verso gli Usa, potenzialmente bilanciando il movimento al rialzo della curva dei tassi americana).

 

Il petrolio e la vecchia lezione della Thatcher

L’esperienza saudita conseguente alla gestione delle risorse petrolifere del Mare del Nord operata dal governo Thatcher sembra avere un peso nel comportamento della politica di gestione delle risorse petrolifere del Paese: la perdita di quote di mercato allora subita è stata recuperata in circa 20 anni. Oggi il rischio si sta ripresentando e l’Arabia Saudita sa cosa fare per evitarne la ripetizione. Guardando ai soli fondamentali si può pensare che, dato il ciclo economico globale, il livello di equilibrio del prezzo del petrolio potrebbe essere attorno ai 70 dollari al barile, la volontà di evitare il ripetersi di rischi di spostamento delle quote di mercato vista in passato può fare pensare anche a livelli che momentaneamente tocchino i 40 dollari a barile.

In ogni caso l’effetto di quanto sopra, oltre che essere deflattivo, è chiaramente espansivo per le principali economie mondiali. Finché la situazione del petrolio manterrà queste caratteristiche, preferiamo astenerci dagli investimenti collegati al mondo dell’energia (quindi non guardiamo con favore a investimenti in Russia, Norvegia, Messico, Brasile, rimaniamo molto cauti anche sul settore petrolifero e limitrofi).

 

Quelle commodities rischiose per gli investitori

Il prezzo del petrolio e del gas naturale hanno fatto immediatamente notizia, anche le altre commodities però hanno subito discese dei prezzi molto sensibili: sono scese molto? Quanto scenderanno ancora? Perché?

Il rallentamento economico è stato il primo imputato della discesa nel prezzo delle commodities industriali ed energetiche, immediatamente dopo però notiamo che la loro quotazione è espressa in dollari, la salita del valore del dollaro spiega una parte ulteriore del movimento registrato. Sappiamo anche che le posizioni in commodities sono infruttifere, lo scendere del livello dei tassi di interesse deprime il costo opportunità di detenere attivi infruttiferi, il contrario succede quando i tassi salgono (o si capisce che stanno per salire, come oggi sul dollaro). Abbiamo quindi elencato i principali motivi per cui i prezzi delle commodities si muovono, allo stesso tempo siamo in grado di capire quanto ancora si muoveranno. Limiteremo l’esposizione alle commodities in generale nei portafogli affidatici in gestione alle pure posizioni indirettamente create dalla presenza di titoli che inevitabilmente vi si riferiscono (preferendo ovviamente il lato “corto”, ad esempio i settori automobilistico o dei trasporti aerei nei confronti del petrolio).

Il rebus: le “nuove banche” fra maxi-liquidità e mini-rischi

Le prospettive economiche globali sono moderatamente positive, i tassi di interesse non dovrebbero muoversi al rialzo in modo brusco grazie al fatto che il tasso di inflazione appare abbastanza stabile e spesso troppo basso, le origini della maggiore volatilità che ci attendiamo durante il 2015 non vanno quindi solo cercate nella variazione di politica monetaria che avverrà negli Usa.

La crisi iniziata nel 2008 ha prodotto essenzialmente due effetti con i quali dovremo convivere sui mercati finanziari: una forte reazione di politica monetaria (inizialmente negli Usa, poi diffusasi nel mondo) e una grande spinta a regolare più restrittivamente l’operato delle banche.

Le banche oggi non lavorano più come hanno lavorato fino a prima del 2008, la loro attività di trading proprietario si è enormemente ridotta, la banca di oggi non è più disposta a prestare il proprio bilancio a sostegno di posizioni di mercato speculative, è quindi uscito dal mercato uno di quegli operatori che consentiva il mantenimento di un buon livello di liquidità, agevolando l’acquisto e la vendita delle posizioni di tutti gli operatori.

L’aumento della liquidità immessa dalle banche centrali ha creato un aumento nel volume delle operazioni sui mercati finanziari, volume che oggi però deve riuscire a trovare il suo equilibrio appoggiandosi a una “infrastruttura” ridotta di dimensione. Il prossimo cambiamento di politica monetaria Usa interromperà il lungo “esperimento” realizzato in questi ultimi anni, generando inevitabilmente variazioni nelle posizioni dei portafogli istituzionali, che si riverseranno appunto su questa ridotta infrastruttura.

Un ulteriore cambiamento introdotto in questi ultimi anni sul modo di funzionare dei mercati finanziari è dato dal modo di essere presenti delle banche centrali, ci attendiamo un parziale rientro soprattutto nella misura di questa presenza, non ci attendiamo invece l’abbandono delle modalità recentemente sperimentate. L’affermazione dell’ex governatore della Fed, Alan Greenspan, che non vedeva tra i compiti di un banchiere centrale anche quello di gestire il formarsi di eventuali “bolle speculative” potrebbe non essere più così ampiamente condivisa, in modo implicito, tra gli obiettivi delle banche centrali, potrebbe essere già entrato anche quello di gestire la stabilità del sistema (non più solo il tasso di inflazione, o il tasso di inflazione e il tasso di occupazione, come fino ad oggi esplicitamente noto).