La disoccupazione nel mese di agosto ha raggiunto i livelli minimi dal febbraio 2013, scendendo sotto la soglia del 12%. Secondo l’Istat in un anno è diminuita del 5%, un dato che equivale a 162mila persone in meno in cerca di lavoro. Lo stesso World Economic Forum ha aggiornato le classifiche sulla competitività, facendo salire l’Italia dalla 49esima alla 43esima posizione a livello mondiale. L’organismo di Ginevra ha commentato: “Le riforme strutturali del mercato del lavoro sono la forza trainante di un forte miglioramento complessivo della competitività dell’economia in Italia”. Matteo Renzi subito è intervenuto su Twitter: “Istat. In un anno più 325mila posti di lavoro. Effetto #Jobsact #italiariparte #lavoltabuona”. Anche se la disoccupazione giovanile rimane elevata, al 40,7%, e cresce dello 0,3% rispetto a luglio. Ne abbiamo parlato con il professor Francesco Forte, ex ministro delle Finanze e per il Coordinamento delle politiche comunitarie.
I dati di Istat e World Economic Forum promuovono l’azione del governo Renzi?
Secondo me no. In primo luogo il World Economic Forum di Ginevra ha come consulenti per l’Italia gli stessi esperti che lavorano per Renzi. Quindi questa valutazione è molto dubbia, oltre che erronea. Il Jobs Act inoltre produrrà effetti nel lungo termine, ma non genera produttività.
Perché?
La produttività non aumenta per il fatto di assumere le persone con il posto fisso, bensì se ci sono retribuzioni in grado di stimolarla. I neo-assunti hanno beneficiato di una sostanziale sovvenzione, ma non sappiamo ancora quanto a lungo conserveranno il loro posto di lavoro.
La stabilità però di solito aumenta l’efficienza del lavoratore…
Nel lungo termine un lavoratore assunto stabilmente ha un’efficienza potenziale maggiore. Ma finché esistono contratti collettivi nazionali di lavoro che stabiliscono una serie di norme rigide sull’utilizzo della forza lavoro, questo potenziale non si esplica.
Quindi il Jobs Act non migliora il nostro mercato del lavoro?
Il Jobs Act ha un difetto fondamentale, impone un unico contratto, e quindi irrigidisce le strutture delle aziende. Nei primi tre anni esiste il diritto a licenziare, ma ci troviamo comunque ancora in una fase sperimentale e non sappiamo come funzionerà effettivamente il contratto a tutele crescenti.
Fatto sta che per l’Istat gli occupati aumentano e le persone inattive calano. Secondo lei perché?
Nel 2006, prima dell’inizio della crisi, la disoccupazione in Italia era al 6,8%, e poi durante la recessione è salita in modo patologico. Il fatto che ora scenda dal 12% all’11,9% si spiega con un minimo di ripresa, che tra l’altro deriva dal Quantitative easing, e anche con il fatto che i cicli economici a un certo punto danno luogo a un rimbalzo in modo spontaneo.
Con quali conseguenze?
Un consumatore per diversi anni non cambia l’auto perché c’è la crisi, ma a un certo punto è costretto a farlo. Le famiglie rimandano il momento in cui comprano casa o si sposano, ma non possono aspettare all’infinito. Il miglioramento dell’occupazione insomma è un fatto normale. Quello che non è normale è che la disoccupazione continui a essere all’11,9%.
Comunque è stato fatto quantomeno un piccolo passo avanti…
Sono il primo a rallegrarmene. Se però un Paese ha una crescita inferiore all’1% e l’occupazione aumenta, significa che a essere ferma è la produttività. La nostra crescita in ogni caso è limitata e genera un’occupazione limitata. Se ci accontentiamo di una disoccupazione totale all’11,9%, e di una crescita del Pil che nel 2016 sarà dell’1,2%, teniamo presente che di questo passo per arrivare alla situazione pre-crisi ci vorranno sette o otto anni. Se ci guardiamo in giro, i giovani hanno ancora delle grosse difficoltà a trovare un lavoro, e quindi non c’è da festeggiare perché siamo in una situazione difficile.
Il tasso di disoccupazione giovanile è al 40,7% e cresce dello 0,3% rispetto a luglio. Come si spiega questo dato ancora così alto?
C’è una ragione fisiologica. Quando l’occupazione cresce poco, i giovani sono svantaggiati perché di solito tornano a essere occupati quelli che lo erano già in precedenza e che ritrovano il loro lavoro. Solo in un secondo momento si iniziano ad assumere i giovani: purtroppo sono gli ultimi ad avere un posto a tavola. Soltanto quando c’è una crescita robusta, c’è bisogno anche della fascia tra i 15 e i 24 anni.
(Pietro Vernizzi)