Caro direttore, il rapporto Svimez, visto dal Nord, non ha veramente interessato nessuno. Si è notata a un certo punto solo una dichiarazione di Salvini, che ha subito interpretato il “rapporto” come un modo subdolo per poi chiedere altri soldi. Vivo da anni a Milano, e provo – se può essere utile – a descrivere da un punto di vista diverso cosa è oggi il Sud per gli italiani con cui vivo e lavoro.



Inutile dire che qui il dibattito è dominato dai risultati di Expo e dalle prossime elezioni comunali (quelle di Milano, intendo). C’è un fermento e un’eccitazione che mettono una distanza mai conosciuta prima tra questa parte del Paese e il Mezzogiorno. Il Sud non c’è. Non c’è neanche in negativo. La Lega concentra tutti i suoi sforzi sull’emigrazione e la lotta tra poveri, o almeno quelli che ritiene essere i poveri che vivono al Nord.



Così come è inutile dirvi che assisto quotidianamente al via vai di giovani meridionali in cerca di lavoro. Vengono qui, prima di andare più lontano, all’estero. Preceduti da telefonate più o meno accorate di genitori che hanno smesso di pensare e cercare occasioni a casa propria. Come sempre accade, spingono i propri figli a fare ciò che loro non hanno avuto il coraggio di fare.

Hanno idee molto vaghe sul loro futuro. Il primo step è rivolto a trovare luoghi di formazione in grado di dare maggiore certezza di uno sbocco occupazionale. Ma anche per “raddrizzare” percorsi formativi inutili fatti a casa, dove in generale si sono sprecati gli anni migliori. È il primo passo per allontanarsi dal Sud e incominciare a spendere un po’ di soldi – e per le famiglie sono soldi veri, a botta di 20-30.000 euro d’iscrizione all’anno – in master o scuole di alta formazione che dovrebbero recuperare lacune accumulate frequentando scuole e università fintamente parificate che rilasciano titoli uguali a quelle del Nord.



Il secondo scoglio diventa subito quello della conoscenza a un certo livello delle lingue e dell’informatica. Niente. Non ce la si fa. Nonostante da anni lo si dica in tutte le salse, niente, i nostri giovani arrivano praticamente analfabeti in inglese e in nuove tecnologie. Certo, grandi conoscitori e frequentatori di social, ma tutto si ferma lì o poco di più.

Quelli che superano questi ostacoli, diciamo anche i pochi che li superano, sono i candidati a restare qui e a non tornare. Sono i candidati a entrare nella classe dirigente del Paese. Occuperanno posti che il Sud non ha più. Per proiezione di reddito futuro, per gratificazione sociale, per prospettiva di carriera. Quindi quando si dice “tornate” bisognerebbe anche dire a fare cosa.

E qui vorrei arrivare al punto che considero centrale. In 25 anni abbiamo decapitato completamente ogni centro direzionale presente nel Mezzogiorno. In ogni campo. Non c’è più una direzione generale di una banca, di un’industria, di una grande società di servizi. Non c’è più un centro di comando di una qualsivoglia struttura economica, finanziaria, di ricerca, di servizi. A cosa dovrebbero candidarsi i nostri giovani migliori? Tutti a diventare imprenditori e creatori di start-up, se leggiamo con attenzione i vuoti programmi di chi ha sempre la soluzione in tasca.

Resta quindi la Pubblica amministrazione, dove non assistiamo a una “leva di massa” degna di questo nome dalla fatidica “legge 285” del 1978 (ormai tutti molto stanchi e avviati alla prossima meritata pensione) e dove i tetti salariali e i rischi insiti nella gestione del denaro pubblico hanno allontanato i migliori. Rimangono le categorie “protette”, cioè quelle a cui ci si accede per appartenenza (notai, magistrati, diplomatici, professionisti, docenti universitari). Ancora più chiuse ed esclusive del passato. Caste assolute.

La politica è stata per molti anni lo strumento più evoluto per emancipare i giovani più bravi. Era uno dei pochi canali aperti dove il merito contava davvero molto. Poi la politica è saltata in aria, gli strumenti di selezione interna ai partiti hanno cominciato a funzionare alla rovescia, promuovendo i peggiori e allontanando chi aveva qualcosa di nuovo da dire ma non voleva sporcarsi le mani con la bassa cucina del “un voto, una tessera” che domina da 25 anni. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la politica ridotta a un luogo dove il dibattito è l’insulto o la mezza frase spiaccicata in una tv. Anche da lì i giovani migliori sono scappati.

Direi dunque, come prima cosa, di partire da qui: un patto tra tutte le generazioni a promuovere una nuova classe dirigente, in ogni campo. Far fare a loro ciò che vogliono fare in giro per il mondo: creare, produrre, competere, dirigere. Un patto a promuovere in ogni campo i migliori, far sentire che un certo “andazzo” è finito, che si ha bisogno di loro per riconquistare il potere che il Sud merita e che ha perso per colpa di una classe dirigente che ha fallito. Queste cose non si possono dire sempre: ci sono delle “finestre” che si aprono e si chiudono rapidamente. C’è bisogno di un contesto. C’è oggi una nuova stagione che si è aperta in Regione con De Luca, tra qualche mese si vota per il nuovo Sindaco. Più in generale si respira qualcosa di nuovo tra chi ha a cuore le sorti dell’Italia. Ecco il mio invito: una volta tanto facciamo una proposta ai migliori, trascineremo anche chi si è arreso o non ce la fa da solo.

Facile a dirsi, vero? Ma ero stato chiaro, avevo detto che avrei offerto solo un punto di vista da un posto lontano…

Antonio Napoli