La legge di stabilità per il 2016 è stata giudicata una manovra espansiva, ma quanto contribuirà davvero alla crescita? La misura più significativa è la cancellazione delle imposte sulla prima casa. Avrà senza dubbio un impatto sui bilanci delle famiglie (si calcola in media 200 euro) e sulle aspettative, vista l’importanza della proprietà immobiliare per gli italiani. Tuttavia resta l’incognita dell’eventuale “rappresaglia” dei comuni, i quali potrebbero compensare i mancati introiti aumentando le imposte locali. 



Alla fine della fiera, così, la pressione fiscale sarebbe la stessa; del resto il ministero dell’Economia prevede un peso delle imposte sostanzialmente stabile nel prossimo anno. Il rinvio del taglio dell’Ires conferma che il sollievo dal lato delle tasse sarà debole. È ormai ampiamente accettato (non solo dai teorici dell’offerta) che l’impatto più efficace sul prodotto lordo deriva dalla riduzione delle imposte sul reddito. Se il peso dei tributi non scende, l’acceleratore fiscale non funziona.



L’espansione, allora, verrà soprattutto dal lato della spesa? Qui la scelta più evidente è la fine della spending review. Matteo Renzi non ci aveva mai creduto, tanto che si è liberato di Carlo Cottarelli, ha sottratto il compito al ministero dell’Economia per portarlo a palazzo Chigi dove i 12 miliardi di tagli previsti un anno fa sono scesi prima a 10 e adesso a 5,8. Non sembra beneficiare di questo “sconto” la spesa per investimenti che ha senza dubbio un’efficacia maggiore per la crescita, anche se oggi come oggi il moltiplicatore keynesiano è meno forte di un tempo (in Italia lo è ancor meno data la storica incapacità a mettere a frutto gli investimenti pubblici).



Oltre la metà della manovra resta scoperta, cioè le risorse verranno reperite emettendo nuovo debito. L’indebitamento netto cresce del 2,2% quest’anno e continuerà ad aumentare fino al 2018, sia pure a ritmo inferiore. Il deficit spending favorisce lo sviluppo economico, secondo l’ortodossia keynesiana, ma gli stessi keynesiani mettono avanti le mani: dipende da come e quando si spende. Torniamo così al circolo vizioso che intrappola da tempo l’economia italiana: bassa produttività, peso delle consorterie e delle corporazioni, inefficienza della Pubblica amministrazione e via discorrendo.

Il Fondo monetario internazionale ha detto recentemente che l’Italia potrà crescere più della Germania. A parte il fatto che l’economia tedesca è in forte rallentamento, lo stesso Fmi prevede un aumento del Pil pari all’1,3% il prossimo anno, inferiore alla media della zona euro che viaggia all’1,5%. E sappiamo tutti che l’Italia ha bisogno di più, molto di più, per aumentare l’occupazione e ridurre un debito pubblico secondo in Europa solo a quello greco.

Sembra un discorso da gufi, ma non è così. Abbiamo scritto più volte su queste pagine che Renzi doveva spingere una congiuntura favorevole, ma ancora anemica, quindi se la finanziaria è espansiva non possiamo che apprezzarlo. Ma il nostro cruccio è che lo sia davvero. Non solo, siamo convinti che la “forzatura” doveva avvenire riducendo le imposte, a cominciare da quelle sul lavoro. Una volta tanto ciò coincide con quello che dice l’Unione europea la quale non è affatto pronta a mettere il bollino su questa Legge di stabilità. Renzi sostiene di avere già in tasca il sì di Juncker e della Merkel, però le sue reazioni irritate ai primi dubbi di Bruxelles fanno dubitare che ci sia già semaforo verde. 

C’è poi un convitato (nient’affatto di pietra) che da Francoforte ha già lanciato il suo avvertimento: gli spazi offerti dalla ripresa debbono essere usati dall’Italia per ridurre il debito, altrimenti la reazione sui mercati finanziari dai quali il governo attinge potrà diventare negativa, soprattutto quando la Federal Reserve aumenterà i tassi d’interesse lanciando così il segnale di un cambio di fase. 

Sia Renzi che Padoan hanno letto e meditato quel che ha detto Mario Draghi. Sanno di pattinare sul ghiaccio e stanno attenti a non provocare crepe nella superficie sottile. Tuttavia le due scelte più importanti, cioè puntare sulla casa e liquidare di fatto la spending review, vanno in senso opposto a quel che sia la Ue, sia la Bce avrebbero voluto. Bastano poche settimane per capire se la loro scommessa sarà vincente.