Tra le varie misure che ritornano ciclicamente nel panorama italiano vi è quella relativa alle limitazioni dell’uso del contante, che viene ora rivisto nella Legge di stabilità. Si tratta di un limite che è stato ritoccato più volte: da 12.500 a 5.000 euro, poi nuovamente elevato per favorire i consumi nel 2008, in piena crisi economica. Fu Monti ad appiattire la soglia ai 1.000 euro (che dovrebbero diventare 3.000 se la manovra verrà approvata) ancora in vigore.



Una precisazione: la norma non vieta per sé l’uso del denaro contante per importi superiori a 1.000 euro, come impropriamente si ritiene, ma il trasferimento tra soggetti diversi; il che impone che le transazioni per importi superiori siano effettuate con mezzi di pagamento diversi dal denaro contante, salvo che la transazione avvenga in presenza di un intermediario abilitato a svolgere le funzioni di adeguata verifica (identità dei soggetti, scopo dell’operazione, ecc.). Ad esempio, chi intenda acquistare l’auto dal vicino di casa e pagarla in contanti può ancora farlo, recandosi con il venditore in banca o alle poste per chiudere la transazione. Naturalmente, così stando le cose, si fa prima a fare un bonifico, ma è solo per ribadire che rimane possibile andare al bancomat e prelevare importi superiori a 1.000 euro (nei limiti delle proprie disponibilità, si intende).



La norma è contenuta nelle disposizioni antiriciclaggio e ha una finalità antielusiva, pur essendo, a ben vedere, molto difficile da controllare: come fare a cogliere due persone che si scambiano la famosa “valigetta” senza farli sorvegliare? Inoltre, ci sono già alcune deroghe alla norma, introdotte dal decreto semplificazioni di inizio 2012 su viva protesta dei commercianti a favore dei turisti extra-Ue. La limitazione attuale, a mio avviso, crea forse più problemi all’operatività ordinaria che all’evasione fiscale; tuttavia, non saprei se incentiva davvero i consumi, essendo ormai sempre più frequente il pagamento con moneta elettronica per importi assai inferiori a 1.000 euro. 



Al di là dei consumi, ad attrarre la mia attenzione è stato il commento di Renzi alla nuova misura: “Quei soldi sono comunque tracciati: con il telefonino controllo tutto di tutti, con gli strumenti bancari controllo tutto di tutti. Attraverso l’information technology recuperi molta più evasione che giocando al gatto e al cane sulle strade [con ogni probabilità, il riferimento è alla geniale idea del governo Monti di pattugliare per qualche settimana le strade di Cortina e di altre località turistiche]”. 

Nella sua cruda immediatezza, tale osservazione evidenzia che il monitoraggio del fisco, a partire dal 2006 con il decreto sullo sviluppo economico a firma Bersani, si è fatto sempre più capillarmente invadente: dalla segnalazione dell’esistenza e poi delle movimentazioni dei conti correnti e dei depositi amministrati, alle spese effettuate al di sopra dei 3.000 euro, ai contributi versati a favore dei lavoratori domestici (colf e badanti) a cui dal prossimo anno si aggiungeranno anche le spese sanitarie trasmesse al Sistema Tessera Sanitaria e altri dati ancora. 

Tutto ciò ha accresciuto il potere dell’Agenzia delle Entrate con un’imponente mole di dati virtuali, che possono essere elaborati per differenti scopi. Tra questi sono certamente da annoverare le semplificazioni degli adempimenti a carico dei contribuenti, come nel caso del cosiddetto “730 precompilato”, che dal prossimo anno si arricchirà recependo le spese sanitarie e precalcolando la più popolare delle detrazioni (il 19% delle spese sostenute per diagnostica, cure e medicinali). 

Tra le finalità antielusive, le elaborazioni consentite dalla base dati possono chiamare il contribuente a giustificare spese ritenute eccessive dagli uffici finanziari a fronte del reddito dichiarato, utilizzando il metodo dell’accertamento sintetico o “redditometro”, che può cogliere nel segno, così come suscitare ansia in coppie di anziani che hanno avuto la pessima idea di concedersi due crociere in un anno per festeggiare la pensione.

A ciò si aggiunge una più stringente collaborazione tra Agenzia delle Entrate e Comuni, chiamati non più a segnalare indici di anomalia, ma a fornire complessi dossier informativi relativi ai propri abitanti. Questo è senz’altro positivo, purché si tratti di vera lotta all’evasione e non soltanto di vessazione dei contribuenti, come spesso capita di leggere nelle cronache cittadine.

In base al rapporto sull’evasione fiscale, previsto a partire dal 2013 e pubblicato in allegato alla Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza alla fine dello scorso mese, il tax gap, ossia la differenza fra il gettito fiscale teorico e quello effettivamente riscosso, nel periodo 2007-2013 si attesta su 91,38 miliardi, a fronte dei 93,55 miliardi del periodo 2001-2006. Certamente si registra un miglioramento, ma non saprei se cantare vittoria paragonandolo al forte potenziamento dell’armatura antielusiva di cui si è dotato il fisco nel medesimo periodo e che il premier ha efficacemente sintetizzato con l’espressione “information technology“, sopra citata.

Il punto naturalmente non è la lotta all’evasione, che è una finalità sacrosanta, ma domandarsi se la continua alimentazione di un “grande fratello” fiscale sia davvero la strada giusta per perseguirla.