La Borsa, si sa, è un indicatore assai parziale dello stato di salute di un’economia. Ma i segnali in arrivo dall’andamento dei listini sono comunque i più affidabili per cercare di prevedere i trend in atto e quelli futuri. Soprattutto quando le indicazioni che arrivano sui monitor degli operatori indicano tendenze ben definite. Merita perciò un certo credito il risultato di Milano al giro di boa dei primi nove mesi del 2015.
A tre quarti del cammino la Borsa italiana si dimostra in buona salute, al contrario di alcuni competitors più robusti, Germania in testa. Malgrado la discesa di settembre (-3%), l’indice principale di Piazza Affari è arrivato a fine settembre con un guadagno del 12% da inizio 2015, un risultato che lo colloca saldamente al primo posto tra i listini del Vecchio Continente. Da inizio anno il Dax di Francoforte ha perso l’1,4%, ma nell’ultimo trimestre (complice lo scandalo Volkswagen) ha perduto l’11%. Oltre alla crisi innescata dallo scandalo del dieselgate pesa la dipendenza dell’economia tedesca dall’export, specie verso la Cina. Ma anche una certa incertezza su più fronti strategici: l’energia, ad esempio, dove la rivoluzione verde lanciata da Frau Merkel con la rinuncia al nucleare dal 2020 presenta più di una zona d’ombra (quale il massiccio ricorso al carbone, spacciato come energia pulita). O i problemi dello smaltimento dei rifiuti: le scorie nucleari, che il governo vorrebbe scaricare sulle società elettriche, hanno messo in crisi le utilities.
Anche Madrid, altro punto di riferimento ormai tradizionale per l’economia italiana, ha lasciato sul terreno l’1% nell’ultimo trimestre. E sul fronte del mercato dei titoli di Stato, il Btp ha raggiunto e superato il Bono spagnolo, più apprezzato dei titoli italiani fino a poche settimane fa. Certo, ha pesato sula Spagna l’ombra della secessione catalana e, forse ancor di più, l’incertezza in vista del voto politico di dicembre. Ma la scuderia del Tesoro italiano può vantare una pagella d’eccellenza: a fine settembre è stato collocato più dell’80% del quantitativo previsto per l’anno in corso, al punto che si è rinunciato a varare un nuovo Btp Italia, l’arma preziosa da riservare ai momenti d’emergenza.
La durata media del debito è intanto risalita sopra i 7 anni e si profila il lancio di un nuovo titolo a 15 anni per venire incontro alle richieste degli operatori internazionali. Infine, lo spread con i Bund tedeschi resta stabile, nonostante la turbolenza degli ultimi mesi abbia favorito i titoli più sicuri. Osservatori esperti, come i tecnici di Websim (scuderia Intermonte) non escludono che la forbice possa stringersi nei prossimi mesi dagli attuali 115 punti a 80-90.
Il risultato non cambia se si allarga il confronto oltre i confini dell’eurozona. A Wall Street dal primo luglio l’indice S&P500 ha perso il 6,9%, il Nasdaq ha lasciato sul terreno il 7,4%. Ha fatto peggio l’Asia, dove il Nikkei giapponese ha lasciato sul terreno il 13%. E ieri il Tankan, il superindice dell’economia nipponica, ha segnalato una nuova frenata del made in Japan. Condizionata dalla bocciatura da parte delle agenzie di rating, la Banca del Giappone esita ad aumentare gli acquisti del Quantitative easing.
Peggio di tutti ha fatto la Cina: Shanghai ha bruciato quasi un terzo del suo valore in tre mesi (-29%). Non vanno certo meglio gli emergenti, anche se nelle ultime settimane la Borsa di San Paulo ha mostrato segnali di ripresa. Ma la crisi, feroce sul fronte dei consumi e degli investimenti, ha comunque provocato la svalutazione del 22% della moneta sul dollaro. Un handicap pesante per il made in Italy, già alle prese con la discesa dei consumi in Oriente.
È questa l’ombra più inquietante sul futuro della congiuntura industriale italiana, favorita peraltro da diversi fattori positivi: la relativa debolezza del dollaro; l’afflusso di liquidità a basso costo che ha ormai raggiunto la maggior parte delle imprese; il calo delle materie prime, non solo del petrolio, una vera manna per le aziende manifatturiere italiane; l’ottima stagione turistica alle spalle. Ma, accanto a questi fattori congiunturali, c’è anche una nuova percezione dell’Italia, grazie alle riforme fatte (il Jobs Act gode di più apprezzamento all’estero che dalle nostre parti) e la prospettiva che stavolta si andrà avanti anche sul fronte istituzionale: con buona pace dei critici, Piazza Affari come i gestori dei Fondi sovrani che si sono riuniti a Milano in questi giorni sono i migliori supporter di Matteo Renzi cui sono pronti a perdonare la scelta di compiacere l’elettorato con taglio delle tasse sulla casa a scapito di un’azione incisiva sul costo del lavoro, a vantaggio degli investimenti, come sarebbe auspicabile. Ma la politica, si sa, ha le sue regole. L’importante è che non tracimi oltre il dovuto.
Un quadro in rosa, come conferma il calo dell’audience dei talk show – a mano a mano che cresce la fiducia, scema la voglia della gente di occuparsi delle miserie della crisi (non a caso il Paese ove sono più popolari gli speech in tv degli economisti è l’Argentina) -, forse troppo bello per non nascondere il rischio di delusioni o inciampi. Ma il rischio più grave è quello di smarrire, com’è già accaduto in passato, la spinta propulsiva: le mosse dei prossimi mesi a partire dalla pulizia del sistema bancario (soluzione per le partite incagliate e le sofferenze, ma anche accelerazione della riforma delle Popolari), così come il decollo della spending review, mille volte annunciata mai avviata, devono confermare al mondo che, stavolta, l’Italia non si vuole fermare a metà del guado.