Un fatto è certo: a differenza dei banchieri della Federal Reserve, più enigmatici di una sfinge, Mario Draghi ama parlar chiaro. Soprattutto quando la situazione lo impone. E così da Valletta il presidente della Bce ha lanciato segnali altrettanto netti e clamorosi del famoso messaggio in difesa dell’euro dell’estate 2012. “Siamo pronti a calibrare il nostro programma di acquisto titoli – ha detto in conferenza stampa – secondo le necessità se ce ne sarà bisogno”. Ovvero, con ogni probabilità, a dicembre quando la banca di Francoforte potrebbe attivare altre armi a disposizione nel suo arsenale, compreso un ulteriore taglio degli interessi, già negativi, sui depositi. Una misura del genere, è stato fatto notare a Draghi, era già stata smentita in altre occasioni. “Vero, ma da allora le cose sono cambiate”, ha risposto il banchiere. 



Insomma, la situazione peggiora. Il programma di Quantitative easing ha centrato non pochi obiettivi, come dimostra il miglioramento delle condizioni di credito nell’eurozona, specie in Italia. Ma nelle ultime settimane sono arrivati segnali negativi per il quadro economico: nel breve periodo, l’inflazione potrebbe essere ancora più bassa di quello che ci si aspettava. Anche le prospettive sulla crescita potrebbero essere corrette al ribasso. Di qui la necessità di alzare il livello di guardia giocando in anticipo sulle decisioni delle altre grandi banche centrali. 



In Giappone, dove il vertice si riunirà il 30 ottobre, il governatore Haruhiko Kuroda si trova in una situazione abbastanza simile a quella della Bce. Ma un eventuale allargamento della politica monetaria, dopo le forti iniezioni degli ultimi anni rischia di avere effetti più ridotti. Diverso il dilemma della banca centrale americana. Un nuovo rinvio, a dicembre, dell’aumento dei tassi rischia di far precipitare la credibilità della Fed che da mesi sta logorando le attese dei mercati con una politica ondivaga e, quel che è peggio, imprevedibile. Ma un aumento dei tassi e di riflesso del dollaro, a fronte di un robusto aumento delle pressioni al ribasso sui prezzi, fomentate dal calo degli acquisti di materie prime da parte della Cina, minaccia di colpire a fondo gli equilibri tra le valute e le economie.



In questo contesto l’affondo di Draghi è un forte messaggio nei confronti degli Stati Uniti: qualsiasi iniziativa sui tassi rilancerà la discesa dell’euro nei confronti del dollaro, con effetti benefici sull’export dell’eurozona e nuove difficoltà per i conti delle multinazionali Usa. Già nel pomeriggio la moneta unica è scivolata verso quota 1,10 sulla valuta Usa.

Non è certo per caso, del resto, che la spinta espansiva in arrivo dalla Bce stavolta sia stata benedetta dei membri più vicina alla Germania (vedi il banchiere austriaco Ewald Nowotny): i minori acquisti da parte della Cina combinati con lo scandalo Volkswagen suggeriscono a Berlino di adottare per una politica monetaria più espansiva. 

Per l’Italia la novità si è tradotta in un immediato calo dei rendimenti dei Btp decennali e dello spread. Il Bel Paese è il big winner della giornata secondo il Financial Times: il tasso è scivolato all’1,5% con un ribasso di dieci punti base. Lo spread con il bund tedesco, anch’esso in discesa, è scivolato sotto quota 100. Di meglio era impossibile sperare.