Una finanziaria espansiva che stimola la crescita riducendo le tasse: questo è il mantra ufficiale recitato da Renzi e da tutti i suoi ministri. È vero? Secondo Fitch, la crescita è ancora troppo bassa, i conti pubblici non vengono risanati perché due terzi della manovra è in deficit e c’è il rischio che la fragilità italiana riemerga quando la congiuntura internazionale comincerà a cambiare: “L’Italia resta esposta a potenziali choc”. Il rating dunque non cambia, rimane BBB+ cioè molto, troppo basso. Ora, le agenzie di rating sono ampiamente sputtanate dopo la grande crisi del 2008, ma resta il fatto che a esse dà ancora retta chi impiega i quattrini dei risparmiatori. Dunque, prima di dire non fateci lezioni, vediamo se magari hanno qualche ragione.
Secondo l’ufficio studi della Confindustria, la manovra per il 2016 aggiunge tre decimali di punto alla crescita spontanea. Magari sarà qualcosina in più, ma certo non si può dire che lo stimolo proveniente dalla politica di bilancio sia determinante a cambiare il passo della economia italiana. Insomma, nell’equazione governativa, più crescita e meno tasse, la variabile sviluppo è un punto interrogativo. Ma quel che viene a mancare è il secondo termine.
Perché, non è forse vero che viene abolita l’odiosissima imposta sulla prima casa? Certo che è vero. E non è vero che la pressione fiscale scende al 42,4%? Anche questo è vero. Ma attenzione, il sollievo non è di due punti come dice il governo, bensì di due decimali di punto. La percentuale alla quale ha fatto riferimento Renzi si ottiene considerando l’impatto delle clausole di salvaguardia, cioè l’aumento delle imposte indirette per 16,8 miliardi che non vengono cancellate, ma rinviate di un altro anno.
Il conto lo fa l’economista Francesco Daveri su lavoce.info, non in percentuale, ma in quantità e arriva alla stessa conclusione. Secondo le tabelle del governo, i contribuenti dovrebbero pagare 22,8 miliardi in meno tra disinnesco della clausole di salvaguardia, cancellazione Imu e Tasi su prima casa, rifinanziamento di una decontribuzione più contenuta sui nuovi assunti a tempo indeterminato, super-ammortamenti e altre voci più piccole. Ma parlando di impulso all’economia bisogna sottrarre le entrate aggiuntive contabilizzate. La prima riguarda il rientro dei capitali dall’estero per 2 miliardi. È una voce una tantum che fa tornare in circolazione senza sconti denaro perso in meandri esteri e che d’ora in avanti contribuirà all’accertamento di base imponibile futura. Poi ci sono imposte temporanee e permanenti sui giochi per un miliardo. Tolti i 3 miliardi di queste voci, la riduzione di entrate nette scende a 19,8 miliardi.
C’è però da distinguere gli effetti contabili da quelli veri, gli unici che valgono per i contribuenti. Il calo di entrate è infatti calcolato rispetto alla legislazione vigente che include lo scatto delle clausole di salvaguardia, cioè degli aumenti di Iva (per 2 punti percentuali) e altre accise sui carburanti per un totale di 16,8 miliardi a partire dal primo gennaio 2016. I veri tagli delle tasse, allora, si riducono a 3 miliardi che sono pari al modestissimo 0,2% del prodotto lordo, due decimali, dunque, non due punti. Quisquilie, pinzillacchere avrebbe detto Totò.
Attenzione, direbbero i cervelloni di palazzo Chigi, non pagare le clausole di salvaguardia è comunque un sollievo. E togliere le imposte dalle prime case ha un impatto non solo materiale, ma psicologico importante, basta guardare alle conseguenze provocate dalla sua introduzione: secondo alcuni ha allungato la recessione di almeno un anno. È un argomento interessante che ha un suo fondamento, ma resta legato all’incertezza dei comportamenti individuali. In genere, se sanno che una tassa è solo rinviata, i contribuenti onesti metteranno da parte i quattrini per il momento in cui dovranno pagarla, magari rinviando i consumi non necessari. Un atteggiamento cautelativo che corrisponde ai comportamenti finora osservati.
Sarebbe stato diverso se quei 16,8 miliardi fossero stati tagliati di netto. Per farlo bisognava abbattere la spesa di un ammontare grossomodo equivalente e magari portare di nuovo il deficit al 3% come l’anno scorso. In tal modo, l’effetto negativo della riduzione delle spese (anche se c’è tanto grasso residuo da tagliare nel corpaccione dello Stato che non ha nessuno effetto positivo sulla crescita economica) sarebbe stato compensato da un deficit finalizzato a un vero, consistente sollievo della pressione fiscale. Se si vuol fare i keynesiani, meglio usare per bene la cassetta degli attrezzi dell’economista inglese.
C’è ovviamente un problema politico e lo vediamo dai piagnistei di Comuni e Regioni che minacciano l’aumento dei ticket sanitari o l’incremento delle imposte locali. Intaccare la spesa pubblica è politicamente pericoloso. Si pagano prezzi che il governo non vuole pagare visto che l’anno prossimo è un anno elettorale importante, si vota in città chiave (Milano, Torino, Napoli, Roma, Trieste) e c’è anche il referendum sulla riforma istituzionale (cambiamento del Senato e centralizzazione dei poteri su trasporti, energia, infrastrutture). Renzi deve vincere alla grande per evitare di cadere sotto il fuoco incrociato delle due opposizioni, quella interna e quella esterna.
Tutto ciò fa senso, naturalmente, ma siamo sicuri che gli elettori non sappiano fare i conti e visto che le tasse non scendono per davvero come promesso non impongano una sanzione a chi vende vuote promesse? Siamo certi che agli effetti del consenso di massa (non quello dei potentati locali e nazionali) la spesa pubblica valga più delle imposte?