Il ballon d’essai mediatico sulla fanta-fusione fra Intesa Sanpaolo, UniCredit e Mps presenta ben poco contenuto in sé.  L’ipotesi non appare realizzabile: né sul piano finanziario, né su quello industriale o dell’antitrust, né – più in generale – nel reticolo degli interessi generali del sistema-Paese cui i tre poli appartengono. UniCredit e Intesa Sanpaolo come sono oggi nascono fra l’altro come superamento di un serio tentativo di fusione fra UniCredit (prima dell’aggregazione di Hvb e Capitalia) e di Banca Intesa (prima della fusione con Sanpaolo Imi). 



Era il 2000 e la costruzione  di una super-banca a Milano era promossa da tutti gli azionisti dei due poli (a cominciare dalle Fondazioni bancarie) e presentava forti profili di appetibilità sia sul piano strategico che in Borsa. Alla fine il progetto naufragò per la resistenza di retroguardia di Mediobanca e la diffidenza del governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. 



Prima di allora una sola “explosive offer” cucinata da una banca d’affari internazionale (Merrill Lynch) realizzò una grande fusione bancaria: quella fra Credito Italiano e Unicredito (Casse di Verona, Torino e Marca Trevigiana). Prima e dopo di allora furono invece numerosi i tentativi di aggregare Mps ad altri gruppi nazionali: strappandolo alla sciagurata tendenza a crescere per costosissime acquisizioni per cassa, culminata nell’autodistruttiva operazione AntonVeneta. 

Otto anni dopo – quando mancano cento giorni scarsi all’avvio del regime Ue di “bail in” per i salvataggi bancari – il cratere lasciato dai contradaioli senesi e dalla nomenklatura di Pci-Pds-Ds-Pd nella regione del premier Matteo Renzi è tuttora pericolosamente aperto: anche dopo tre anni di cure da parte di Alessandro Profumo e due aumenti di capitale.



Dentro il ballon d’essai giocato da Il Sole 24 Ore alla roulette speculativa aperta 24 ore al giorno attorno al titolo Mps, la notizia resta questa: il Monte continua a far paura, mentre i vigilantes della Bce stanno dando l’ultima occhiata alle check list con cui – dal primo gennaio – decideranno se una banca dell’eurozona ha tutte i parametri a posto per sopravvivere oppure se va rottamata chiamando nel caso anche i grandi depositanti a pagare il conto.

Mps resta, anzitutto, in cima ai pensieri della Banca d’Italia, che sta correndo ai ripari su molti fronti (con qualche colpevole ritardo, in molti casi tutt’altro che breve). A oggi l’unica situazione stabilizzata pare quella di Carige: che sembra orientata a un’aggregazione con Bpm. In alto mare sono tuttora i due dossier Popolare di Vicenza (surreale se non fosse drammatica) e Veneto Banca, che il governatore del Veneto, Luca Zaia, vorrebbe addirittura fondere assieme. 

Dopo il 15 ottobre – quando la normativa bail-in sarà recepita in Italia – dovrebbe partire l’intervento da 1,75 miliardi del Fondo interbancario di garanzia depositi su tre banche commissariate: Banca delle Marche, Banca dell’Etruria e Cassa Ferrara. Ma l’iniezione di nuovi mezzi da parte delle sei maggiori banche italiane sarà sufficiente? E quale sarà l’approdo finale del piano? Tutto questo, naturalmente, al netto del Monte dei Problemi di Siena.