Adesso anche la prudente Banca d’Italia si sbilancia e alza all’1% le previsioni di crescita del Pil per quest’anno. Dunque, siamo fuori dalla dannazione dello zero virgola. I prezzi cominciano a salire sia pur lentamente, quindi possiamo sfuggire alla deflazione. L’occupazione migliora, anche se in modo contraddittorio e a macchie di leopardo. Le banche cominciano a prestare quattrini a famiglie e imprese, a condizioni migliori che in passato. Insomma, tutti gli indicatori mostrano una congiuntura migliore. Di quell’1%, tre decimi sono conseguenza della politica economica (la riduzione delle imposte soprattutto sulla prima casa e le riforme del mercato del lavoro), il resto dipende dalle condizioni internazionali favorevoli (l’abbondante moneta stampata dalla banca centrale, le esportazioni che tengono anche se rallentano a vista d’occhio, un capitale finanziario abbondante in cerca di sbocchi profittevoli).
Tutto bene, dunque? Meglio del previsto. E ciò induce il governo a incassare i benefici politici della svolta economica. Qui entriamo nel regno della massima imprevedibilità. Oggi come oggi molti segnali fanno pensare che Matteo Renzi calcoli di andare alle urne nella prossima primavera, quando comunque saranno chiamati alle urne gli elettori di Milano, Torino, Napoli e probabilmente Roma, cioè là dove si concentra una gran massa di consensi politici. Piuttosto che rischiare di perdere alcune grandi città, conviene anticipare i tempi e chiedere il voto su un governo che porta a casa alcune riforme importanti, come il mercato del lavoro e il Senato, e in più la ripresa economica. Non solo: a destra non c’è nessuno sfidante in grado di vincere e il Movimento 5 Stelle non ha dimostrato di essere una forza di governo. Insomma, tutto spinge a capitalizzare i miglioramenti di breve periodo. Renzi è un keynesiano per vocazione, per lui nel lungo periodo siamo tutti morti.
Eppure, molti fattori inducono a guardare avanti con lenti diverse. Intervistato da Repubblica, Fabrizio Saccomanni, già ministro dell’Economia e numero due alla Banca d’Italia, mette le mani avanti. L’abbondanza di liquidità e i tassi di rendimento sotto zero producono risparmi virtuali che possono essere stimati fino a 6 miliardi di euro l’anno. Dunque, ci sarebbero più risorse per aumentare la spesa o ridurre le tasse sostenendo la ripresa. Ma “è chiaro che parliamo di una situazione che realisticamente non dovrebbe durare a lungo”, avverte Saccomanni. Non sappiamo quando finirà la bonanza, “realisticamente” potremmo dire fino al momento in cui dagli Stati Uniti partirà la svolta nella politica monetaria con il rialzo dei tassi d’interesse. La Bce non seguirà subito al Fed, però, “realisticamente”, a metà del prossimo anno cambierà il vento anche nella zona euro.
Se non ci saranno turbolenze impreviste, l’estate del 2016 diventerà un momento della verità. Il governo cercherà di arrivarci spingendo al massimo l’acceleratore fiscale, cioè aumentando il deficit pubblico, rosicchiando tutti i margini di flessibilità, portando il disavanzo vicino al 3% del Pil. Ammettiamo che, così facendo, sia riuscito a ottenere una crescita di un punto e mezzo in termini nominali (considerando una inflazione che oggi come oggi è estremamente bassa). Purtroppo non basterebbe a ridurre il debito, perché se applicassimo le regole del Fiscal compact, con il debito attuale, il prodotto lordo dovrebbe salire di un altro punto percentuale.
Per ottenere questo risultato avremmo bisogno di più crescita, ma anche di ridurre l’aumento dello stock di debito che si accumula anno dopo anno. Come spiega la Banca d’Italia, è possibile rilevare dei mesi in cui il debito assoluto scende per poi risalire, ma il dato atteso a fine anno è comunque in crescita rispetto al dicembre 2014, e alla fine del 2016 sarà in crescita rispetto al dicembre 2015. Il ministro dell’Economia lo sa, tanto che “la stessa programmazione del governo prevede che il debito in valore assoluto o in termini monetari cresca in modo continuativo fino al 2019 quando dovrebbe raggiungere il valore di 2.218,2 miliardi di euro”, parole scritte sul sito del Mef (Ministero dell’economia e finanze).
Insomma, quando comincerà il rialzo dei tassi l’Italia si troverà ancora una volta tra i paesi a rischio perché non ha avviato il deleveraging, cioè il rientro dall’alto indebitamento. Anche chi sostiene che solo la crescita può far ridurre il rapporto tra debito e Pil non può non tener conto che dobbiamo finanziare duemila e duecento miliardi di euro offrendo titoli sul mercato finanziario e pagando ogni anno interessi superiori a 4 punti di Pil: sono esattamente 4,2 quest’anno, il doppio rispetto alla spesa per investimenti fissi lordi. Secondo le stime del governo, la situazione migliorerà ma di poco, perché nel 2018 la spesa per interessi sarà ancora pari al 3,8% del Pil. Calcoli fatti tenendo conto di poter godere ancora di queste condizioni monetarie eccezionali che, per citare ancora Saccomanni, “non dovrebbero durare a lungo”.
Mario Draghi aveva avvertito che i benefici della congiuntura positiva e della politica monetaria espansiva dovevano essere destinati a ridurre il debito, favorendo la crescita con minori tasse e minori spese. Renzi ha seguito un’altra strada, quella del deficit spending, con una finanziaria dove due terzi delle uscite sono in disavanzo, pensando che sia politicamente più favorevole (tagliare la spesa costa voti). È un azzardo. Può darsi che abbia fortuna e gli vada bene. Ma anche in questo caso l’Italia avrà perso l’occasione per un risanamento duraturo.
Un discorso da gufi? Piuttosto da formiche realiste: non facciamoci incantare dai pifferai magici, il tempo delle cicale non tornerà più.