Oggi è l’ultimo giorno dell’Expo a Milano, un’esperienza il cui lascito potremo vederlo soltanto quando i riflettori si saranno spenti e le dispute di bandiera lasceranno spazio al pragmatismo delle scelte, in primis quelle sul futuro delle aree espositive. Al netto di tutto questo, che poco riguarda il mio lavoro, voglio presentarvi il Paese e la città ospitante della prossima esposizione mondiale che non è Dubai nel 2020 come molti pensano, bensì Astana in Kazakistan, città che diverrà il centro del mondo tra il 10 giugno e il 10 settembre del 2017. Il tema scelto dagli organizzatori, vista la natura di principale produttore di energia dell’Asia Centrale del Paese, è Future Energy, ‘”energia futura” e toccherà temi relativi alla produzione responsabile ed efficiente di energia nell’immediato futuro e al rapporto con l’ambiente, con particolare riferimento alle energie rinnovabili.
È stato presentato un progetto per un sito da 174 ettari e un programma che prevede la partecipazione di più di 100 Paesi e circa 6 organizzazioni internazionali, per una platea di 7 milioni di visitatori. Ma, soprattutto, è la prima volta che un Paese centro-asiatico ospiterà un’esposizione internazionale. C’è però un problema, perché non più tardi di quattro giorni fa il presidente kazako, Nursultan Nazarbayev, ha avvertito il governo del suo Paese di prepararsi a sopportare un’ormai prossima crisi economica, preannunciando effetti dolorosi. «È impossibile prevedere miglioramenti sostanziali per il breve termine, con seri rischi che la popolazione possa subire ancor più danni economici rispetto alla crisi del biennio 2007-2009», ha dichiarato. Il bilancio delle entrate statali è sceso del 40%, dopo il crollo dei prezzi petroliferi, come ha ribadito lo stesso presidente kazako in una dichiarazione comparsa sul proprio sito web: «La nostra gente deve aver ben chiaro il momento che sta vivendo, il che significa un calo dei profitti delle nostre società, una riduzione del reddito e la possibilità di tagli», ha detto Nazarbayev. E ancora: «Dobbiamo avere un programma a sostegno dei gruppi socialmente più vulnerabili».
Il Kazakistan ha abbandonato il tasso di cambio gestito lo scorso agosto per le forti preoccupazioni sul rallentamento cinese e la velleitaria ripresa dei prezzi del greggio: le autorità finanziarie del Paese sono nuovamente intervenute per sostenere la propria valuta, il tenge kazako, dopo che la volatilità è salita ai livelli più alti del mondo con contestuale svalutazione fino al minimo record di 299,99 tenge per ogni dollaro Usa. Il 15 ottobre scorso, la banca centrale kazaka, come peraltro riportato da Bloomberg, ha dichiarato che 3 miliardi di dollari saranno venduti dal fondo National Oil sul mercato aperto, dopo che l’ente regolatore ha speso 1,7 miliardi di dollari per assorbire le oscillazioni del tenge. Nel 2009, il Kazakistan svalutò il tenge di circa il 20%, spendendo poi 10 miliardi di dollari per sostenere l’economia e altri 20 miliardi per il salvataggio di tre istituti di credito del Paese. Insomma, non parliamo proprio di una nazione stabile: come mai assegnarle l’Expo?
Di questo parliamo dopo, ora vi dico perché la crisi economica del Kazakistan potrebbe indirettamente interessarci. Semplice, il governo del Paese starebbe infatti valutando di imporre una multa fino a 2 miliardi di dollari alla joint venture che gestisce il progetto del gasdotto Karachaganak, nel nord-ovest del Kazakistan, ovvero all’italiana Eni. Stando a Bloomberg, il colosso petrolifero italiano, che detiene una delle quote di maggioranza del progetto (29,25%), così come BG Group, potrebbe vedersi recapitata la sanzione a causa del mancato adempimento di alcuni obblighi contrattuali.
La multa sarebbe, grosso modo, in linea con le sanzioni che il governo ha minacciato di imporre nel 2010, quando il contenzioso finì con un accordo che ha permesso allo Stato di entrare nel progetto con una quota del 10%. Al momento, infatti, oltre alla società pubblica KazMunayGaz che ha appunto il 10%, ci sono anche la società statunitense Chevron con il 18% e la russa Lukoil con il 13,5%. Stando alla valutazione di alcuni esperti, la sanzione potrebbe essere un modo per aumentare ulteriormente la partecipazione del governo kazako, ma l’ipotesi non è stata confermata e anche KazMunayGaz ha declinato ogni commento in merito, indicando il ministero dell’Energia kazako come referente per ulteriori informazioni, ancora non pervenute. Strano però, crisi in vista e contestualmente multa miliardaria contro Eni: non vedete qualche contemporaneità sospetta? Solo poche settimane fa, inoltre, il ministero dell’energia kazako aveva dichiarato come non esistesse nessun interesse da parte dello Stato kazako ad aumentare la quota nel progetto Karachagakan.
Tuttavia, la vicenda potrebbe vedere ulteriori sviluppi nei primi mesi del prossimo anno, visto che BG Group dovrebbe essere acquisita da Dutch Royal Shell per circa 70 miliardi di dollari. Nel caso in cui il controllo di BG Group dovesse passare di mano, il governo kazako potrebbe esercitare il diritto di prelazione per l’acquisto della partecipazione di BG Group nel progetto di questo giacimento, le cui riserve di petrolio ammontano a 1,2 miliardi di tonnellate, mentre le riserve di gas superano gli 1,35 miliardi di metri cubi. A oggi, è stimato che quasi il 45% del gas e il 16% di tutti gli idrocarburi liquidi prodotti in Kazakistan vengano estratti da questo giacimento. Insomma, non un business di poco conto. Anzi. Soprattutto in un momento delicato per chi, come Eni, opera nel mondo del petrolio e degli idrocarburi, i quali scontano la fine del super-ciclo delle commodities e il calo dei prezzi.
Tanto più che, in attesa di conoscere gli sviluppi riguardo le attività in Kazakistan e archiviata la cessione del 12,5% di Saipem al Fondo strategico italiano, proprio giovedì Eni si è presentata all’appuntamento dei conti. In chiaroscuro, nonostante la ristrutturazione profonda messa in campo dall’ad del gruppo, Claudio Descalzi. Forte della crescita produttiva segnata sia nel trimestre (+8,1%, a 1,703 milioni di barili al giorno), sia nei primi nove mesi dell’anno (+8,7%), nonché dei successi esplorativi e negli altri business (raffinazione, chimica e gas), i risultati del gruppo scontano la dinamica ribassista del mercato. Nel trimestre l’utile operativo adjusted, esclusa Saipem, è pari a 0,6 miliardi nel trimestre (-79%) e 3,51 miliardi nei nove mesi (-60%), mentre includendo la controllata, l’utile l’operativo rettificato è sceso a 0,7 miliardi nel trimestre (-75,2%) nel trimestre e del 66,7%, a quota 3,08 miliardi da gennaio a settembre. L’utile netto rettificato, invece, si è fermato, escludendo gli effetti della controllata, a -0,29 miliardi nel trimestre con un peggioramento di 1,42 miliardi rispetto al dato registrato nello stesso periodo del 2014, mentre sui nove mesi la diminuzione, sempre escludendo Saipem, è stata del 76%, a 759 milioni.
Il cash flow operativo è stato di 7,39 miliardi nei nove mesi (1,71 miliardi solo nell’ultimo trimestre) e, insieme ai proventi arrivati da dismissione di asset non strategici nell’esplorazione e produzione, ha coperto quasi interamente gli investimenti tecnici (8,65 miliardi). Quanto al debito, a fine settembre si è attestato a 18,4 miliardi, in crescita di 1,94 miliardi rispetto al dato di fine giugno (4,7 miliardi su quello di dicembre 2014) per via del pagamento dell’acconto cedola 2015 del gruppo e degli investimenti del periodo. Di conseguenza, peggiora il leverage – cioè il rapporto tra esposizione netta e patrimonio netto – che è aumentato a 0,39 a fine settembre contro lo 0,22 di dicembre 2014. Capite, quindi, che per un gruppo di importanza fondamentale per l’economia italiana come Eni, un’eventuale multa del governo kazako in odore unicamente di “fare cassa” a fronte della crisi economica in arrivo, potrebbe rivelarsi davvero sgradevole, perché in grado di far rallentare il processo di razionalizzazione dei conti in atto e quindi il miglioramento delle performance di mercato rispetto ai competitor.
E ora vi spiego perché il Kazakistan, nonostante i suoi guai, possa dormire sonni relativamente tranquilli e godersi il lusso non solo di poter organizzare e ospitare il prossimo Expo, ma anche di minacciare multe verso multinazionali estere che operano sul suo territorio. Anzi, ve lo spiega il primo grafico a fondo pagina, il quale ci dimostra come il Paese sia diventato nel tempo un big della produzione mineraria di uranio e che sia oggi il primo fornitore di questo materiale verso gli Usa, stando a recenti dati della U.S. Energy Information Administration riguardo le forniture nucleari agli Stati Uniti. Insomma, i reattori di Zio Sam si nutrono grazie all’uranio kazako, tanto che gli acquisti statunitensi sono saliti del 50% durante il 2014, un totale di 12 milioni di libbre, il livello più alto di sempre. Inoltre, il livello di offerta del Paese è tale da aver schiantato la concorrenza di fornitori storici degli Usa come l’Australia (10,5 milioni di libbre) e il Canada (9,8 milioni di libbre), tanto che l’uranio kazako ha rappresentato il 23% di tutto il minerale richiesto dagli Stati Uniti per le loro necessità nucleari.
E il perché è presto detto, anzi ce lo dice l’ultimo grafico: il prezzo, visto che nel 2014 il prezzo medio per libbra dell’uranio kazako è stato di 44,47 dollari, 3,50 dollari o il 7,5% in meno di quello australiano e in grado di battere tutti i principali competitor di mercato. Insomma, l’Australia rischia di perdere ulteriori quote di mercato, visto che il Canada nel 2014 ha visto aumentare il suo export verso gli Usa del 25% e che l’industria interna statunitense è la grande sconfitta della partita, avendo registrato un prezzo medio per libbra di 48,11 dollari, ragione che ha portato a un crollo degli acquisti del 65% lo scorso anno.
Insomma, finché c’è uranio, c’è speranza. Anche questo è un modo di raccontare Expo, forse un po’ alla mia maniera ma almeno parlando di argomenti che difficilmente si trovano sulla grande stampa.