È stata raggiunta l’intesa tra Usa e 11 Paesi del Pacifico sulla Trans-Pacific Partnership (Tpp). Un accordo a cui si è lavorato per lungo tempo e che è stato raggiunto in un momento molto delicato della situazione internazionale. I commentatori pongono soprattutto l’accento sul contesto interno agli Usa, ossia la battaglia che si è già aperta per le primarie dei partiti democratico e repubblicano. Il ruolo del Presidente Usa in questa delicata questione si è definito come un forte impegno nella difesa dei valori storici del partito a cui Obama appartiene. Mentre ciò avveniva, spiccava, tuttavia, tutta la sua debolezza in politica estera, come dimostrano dieci anni di disastri internazionali, iniziati con la guerra Iraq-Iran (dal 1980 al 1988) e poi via via ampliati dalla politica statunitense sino a quella perseguita, errore dopo errore, dal presidente uscente. 



Disastri recentemente appena mitigati dall’accordo con l’Iran e dalle mediazioni raggiunte in merito a tale accordo con le potenze saudite del Golfo e la Turchia, mentre con Israele il baratro di incomunicabilità via via si amplia e segna forse il punto più basso nella sua già sofferta e complicata storia. Oggi siamo giunti a un livello così basso che è difficile da superare e che fa ricordare lo scontro diplomatico ai tempi di Nasser e del rifiuto nordamericano di appoggiare i paracadutisti israeliani, inglesi e francesi che si lanciarono sul Canale di Suez per fermarne la nazionalizzazione e furono sconfitti da un esercito egiziano armato e guidato in larga misura, oltreché dagli ex militari nazisti rifugiatisi in Egitto nel Secondo dopoguerra, da istruttori sovietici. Essi lasciarono il posto, anni dopo, agli istruttori e ai capitali nordamericani, ma le turbolenze allora iniziate non finirono mai, non sono mai finite.



Ma torniamo al Trattato. Si tratta certo di un impegno grandioso che fa di nuovo apparire all’orizzonte la vocazione imperiale Usa, che è sicuramente una garanzia essenziale sia per ridare crescita economica al pianeta che per dare a esso quella sicurezza militare che potrebbe essere la base di un nuovo ordine internazionale, che dopo il crollo dell’Urss non si è ancora inteso ricostruire, soprattutto per il fallimento intellettuale dell’establishment – malattia bipartisan quindi – Usa.

L’accordo ora raggiunto abbatterà gli ostacoli – tariffari e non – al commercio e i suoi sostenitori assicurano che creerà lavoro e migliorerà gli standard ambientali tra le nazioni. Quelle firmatarie detengono il 40% della produzione economica mondiale. Qualche notazione geo-strategica. Tra le 11 nazioni asiatiche (non si può non ricordare il capolavoro di Gunnar Myrdal) firmatarie (insieme a quelle sudamericane che si affacciano sul Pacifico) spicca il Giappone, a fronte del non coinvolgimento della Cina che vede invece tra i firmatari, con “gran dispitto”, due suoi storici avversari: il Giappone appunto e il Vietnam, nazioni contro cui, in ben diverse temperie, ha recentemente combattuto e nei confronti di cui ha accumulato odi e tensioni non dimenticabili. 



L’iniziativa cinese della creazione della Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture ha segnato un’irreversibile frattura geo-economica tra gli Usa e i suoi alleati storici guidati dal Regno Unito, che ha accettato di erigere a Londra la sede di tale banca, il che è un’inaudita sfida al predominio nordamericano nella guida degli istituti di regolazione economica mondiale, per iniziare con il Fmi e per finire con la Banca Mondiale. L’accordo crea un’altra pericolosissima faglia nell’economia mondiale.

Come ha affermato recentemente Giuseppe de Lucia Lumeno in un importante libro di prossima pubblicazione, la cifra essenziale della globalizzazione “bastarda” in corso è la separazione (realizzatasi con la deregulation degli intermediari finanziari e la sottomissione della politica ai mercati) tra economia e società, danno gravissimo alle relazioni sociali umane su scala mondiale. Ebbene, l’accordo segna, da un canto, l’inveramento di un disegno imperiale, ma d’altro canto il suo è un definirsi come occasione di scontro e non di dialogo con la potenza emergente dell’Impero di Mezzo, ancorché oggi sprofondata in una crisi per me profondissima. 

In questo contesto non può essere sottaciuto che il trattato assume inevitabilmente il significato di una grande operazione concertata tra una moltitudine di nazioni diretta a contenere la crescente influenza economica della Cina nell’area del Pacifico. Del resto il nulla di fatto registratosi nel corso della visita di Xi Jinping negli Usa conferma questa mia tesi. I veri problemi sollevati dal Trattato sono questi e superano tutti quelli pur essenziali più volte denunciati in Usa e nel mondo dai suoi avversari. 

Ricordo, per esempio, le polemiche sulla protezione dei brevetti farmaceutici, ossia sulla proprietà intellettuale in merito a cui gli Usa hanno sempre posto un’efficace difesa, così come le norme igieniche alimentari e non ultime le condizioni di lavoro e di eliminazione dei dumping sociali nei confronti dei lavoratori, con tutto il grande tema della corporate social, responsabilità oggi esplosa con la truffa sul diesel di marca tedesca… 

Ne sappiamo e ne abbiamo saputo troppo poco su questo Trattato. E poco sappiamo di come si siano concluse le discussioni. Trattative difficili sono inoltre avvenute sull’auto (oggi dovrebbero essere al centro dell’osservazione), sui latticini e in generale sui temi dell’unificazione tecnica dei materiali e delle procedure standard, industriali e non.

L’accordo sconvolge equilibri agricolo-commerciali secolari, con l’apertura dei mercati agricoli di Canada e Giappone e di molti altri paesi asiatici. Non tutti, infatti, sono entusiasti dell’accordo. E in molti già denunciano che il libero scambio distruggerà posti di lavoro anziché crearne di nuovi. 

Nel dettaglio, l’accordo sul Tpp prevede l’eliminazione delle barriere tariffarie e non-tariffarie e l’adeguamento degli standard commerciali in una vasta area dell’Asia-Pacifico, associando l’economia statunitense a quella di altri undici paesi: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam.
Ora il disegno imperiale dovrebbe essere completato con una visione planetaria e mi riferisco ai lavori in corso per ilTtip, l’accordo di libero scambi tra l’Unione europea e gli Stati Uniti. Essi tuttavia procedono a rilento, contrassegnati da una segretezza ancor più profonda di quella che ha accompagnato il Trattato testé firmato e da una polemica sotterranea violentissima tra Usa e Germania e in generale l’Europa deflazionista. Il conflitto aperto con la Russia è ora esacerbato dalla questione siriana.

Insomma, siamo dinanzi a un’ambizione senza le ali di un vasto e organico disegno strategico. Da quando gli intellettuali europei hanno cessato di irrorare con il loro lavoro mentale gli Usa, come accadde a seguito di persecuzioni e tragedie, le sterili aule del pensiero non umanistico statunitense nulla di grandioso hanno più prodotto, soffocate da un’economia come triste scienza e da una scienza senza fede, come Allan Bloom aveva previsto molti anni or sono in un libro indimenticabile come “The closing of American mind”.

Certo, oggi di europei ne arrivano in massa. Ma ormai sono più nordamericani dei nordamericani e più subalterni dei subalterni locali. In ultima istanza a decidere è sempre la cultura e gli Usa sono un impero che vuol volare senza ali: quelle della cultura.