È da qualche tempo che non mi occupo del petrolio e delle dinamiche del suo prezzo, semplicemente perché alla montante speculazione sui futures si è unita un’instabilità geopolitica in Medio Oriente che ritenevo foriera di novità. Non è stato così, almeno per ora, ma il quadro comincia a delinearsi. L’Arabia Saudita, sponsor dell’Isis in chiave anti-Assad e presidente della Commissione diritti umani dell’Onu (al Palazzo di Vetro hanno bisogno di uno psichiatra e di quelli bravi), ha infatti tagliato in maniera netta i prezzi del petrolio ai propri clienti per cercare di risollevare i conti del Paese e far concorrenza agli produttori del Golfo, stando a quanto riportato da Marketwatch.
In una lettera spedita alla propria clientela, la compagnia di Stato, Aramco, ha tagliato il prezzo del Wti light-crude con consegna in Asia di 1,7 dollari al barile: l’effetto è stato di offrire la materia prima a sconto di 1,6 dollari al barile contro le quotazioni medie rivali di Dubai. La società ha poi ridotto il prezzo dei petrolio pesante (heavy oil) con destinazione l’Asia di 2 dollari al barile e di 30 centesimi a barile quello che deve essere spedito negli Stati Uniti. La decisione è arrivata dopo che Iran, Iraq e altri Paesi del Medio Oriente avevano tagliato i prezzi il mese scorso, lasciando l’Arabia Saudita con il tariffario più alto.
L’Arabia ha continuato a estrarre petrolio in quantità elevate in questi mesi nella speranza che i prezzi più bassi possano stimolare la domanda asiatica e colpire gli Stati Uniti che devono affrontare maggiori costi di produzione con lo shale. Ma mentre l’economia cinese sta rallentando, la produzione americana è cresciuta di 68mila barili al giorno lo scorso luglio, stando ai dati pubblicati dall’Amministrazione americana per l’energia (U.S. Energy Information Administration). Nel frattempo, venerdì Standard & Poor’s ha tagliato il rating di molti gruppi petroliferi, assegnando un outlook negativo a Exxon Mobil e a Chevron. La causa è nota: prezzi del barile dimezzati rispetto a un anno fa, cash flow e liquidità in forte riduzione. L’agenzia di rating ha puntato il dito sul debito elevato di Exxon, che si deve confrontare con costi di produzione nel segmento upstream a livelli del 2009, quando il prezzo del barile era ben più alto. Le quotazioni del Wti statunitense sono scese del 58% rispetto ai picchi dello scorso anno, minacciando 1.500 miliardi di dollari di investimenti in energia nel Nord America, stando a dati di Wood Mackenzie. Il petrolio oscilla da tempo attorno ai 45 dollari il barile (Wti americano), mentre le scorte di crude restano a 100 milioni di barili oltre la media stagionale, mentre in contemporanea l’Opec sta pompando petrolio a livelli prossimi ai record storici. Insomma, senza uno shock sul lato della domanda o una minaccia seria a quello dell’offerta (leggi una guerra che metta a rischio le forniture di uno o più Paesi produttori), la stagnazione sui minimi è ben lungi dallo sparire dai radar.
Ma al di là di tutte le contingenza c’è un qualcosa che potrebbe cambiare l’orizzonte del mercato da qui a pochi anni, rendendolo completamente differente a fronte dell’extra-produzione in atto e del possibile ritorno a pieno titolo sul mercato dell’Iran post-sanzioni: le riserve petrolifere strategiche (Spr) della Cina, i cui dati sono assolutamente raffazzonati, come spesso accade da quelle parti, ma che a oggi sono il motivo per cui sempre più paesi stanno tagliando i prezzi del greggio per il mercato asiatico. Di fatto, la Cina è l’unico player mondiale che compra petrolio, nonostante il rallentamento economico e lo fa appunto per riempire al massimo le proprie riserve strategiche, beneficiando delle sconto rappresentato dai prezzi ai minimi. A oggi si pensa che le Spr cinesi siano stimabili in 500 milioni di barili, ma qualcuno parla di 600 milioni entro il 2020, un qualcosa che ha permesso a Pechino di creare capacità di riserva nell’arco di una decade attraverso un percorso in tre parti, l’ultima delle quali sarà appunto il completamento nel 2020.
La fase uno ha visto la costruzione di quattro siti di stoccaggio, i quali attualmente hanno un riempimento del 90% rispetto alla capienza massima, circa 91 milioni di barili su un totale di 103 milioni, circa 9 giorni di consumo cinese. Attualmente la Cina è a metà della fase due, con altri siti costruiti tra il 2011 e il 2014 e altri che sono stati completati a inizio di quest’anno, mentre altri due saranno terminati nel corso di questo trimestre. Originalmente la fase due doveva vedere la nascita di otto nuovi siti, ma si pensa che saranno invece dieci, capaci di contenere circa 260 milioni di barili di petrolio. La fase tre vedrà sorgere altri due siti, uno in via di completamento e l’altro da finire entro l’inizio del primo trimestre del 2016, per un totale di un extra 50 milioni di barili in più entro marzo del prossimo anno. La tabella a fondo pagina ci mostra gli ammontare di acquisti cinesi nel programma di Spr fino a settembre di quest’anno.
Si ritiene che Pechino stia importando approssimativamente mezzo milione di barili al giorno oltre il proprio fabbisogno di import, ma nessuno ha la certezza che questo greggio vada in toto nelle riserve strategiche e non finisca invece in quelle a finalità commerciale di Cnooc, Cnpc e Sinopec, le quali stanno dando vita a un’espansione enorme degli stoccaggi per sfruttare i bassi prezzi attuali e rivendere un domani quel greggio a prezzi molto più alti sui mercati mondiali. Il problema ulteriore è che non ci sono informazioni chiare rispetto all’ammontare delle riserve commerciali cinesi, con i dati che spesso uniscono quelle del governo a quelle industriali, rendendo molto più complicato poter fare una stima dell’impatto che esse potranno avere un domani sulle dinamiche di mercato.
Le previsioni più accreditate parlano di riserve commerciali tra i 200 e i 400 milioni di barili, ma con spazio di stoccaggio ancora disponibile in alcuni siti industriali non statali, mentre quello della Sinopec a Zhanjiang sarebbe già al completo e altri due dovrebbero arrivare a saturazione entro pochi mesi con almeno 50 milioni di barili. Insomma, la Cina avrebbe acquistato un extra 12-14 milioni di barili al mese, il che le permette di poter comprare ancora nel programma di Spr per almeno tutto il 2015, quando andranno a completamento i lavori dei nuovi siti di stoccaggio. Se dal prossimo anno, attorno a giugno, dovremo attenderci un rallentamento degli acquisti, giova però ricordare che il completamento di tutti i siti e il loro riempimento al massimo comporterà acquisti di almeno altri 200 milioni di barili entro il 2020.
Quale impatto avrà tutto questo sul mercato? Calcolate che il mercato petrolifero mondiale attualmente ha 2 milioni di offerta in eccesso al giorno, quindi a oggi la Cina sta garantendo un cuscinetto ai prezzi, pur bassi, affinché non cadano ulteriormente. Ora le dinamiche appaiono semplici: con i Paesi Opec che stanno producendo ai massimi e gli Usa che fanno lo stesso, visto che l’output cresce nonostante continuino a chiudere i siti estrattivi meno profittevoli rispetto al break-even sul prezzo, o una di queste due parti decide di tagliare la produzione giornaliera o il combinato di minori acquisti strategici cinesi e contemporaneo rallentamento delle economie globali non potrà che comprimere ancora al ribasso le valutazioni del barile.
A dicembre si terrà il meeting dell’Opec a Vienna e già parecchi Stati, Iraq in testa, hanno chiesto all’Arabia Saudita di rivedere la sua posizione rispetto al mantenimento della produzione ai massimi per cercare di far risalire i prezzi, visto che se il Qatar resta profittevole fino a 65 dollari al barili, Riyad ha bisogno del greggio a 100 dollari per bilanciare il suo budget, altrimenti dovrà continuare a bruciare riserve valutarie estere come sta facendo per tamponare i gap dei conti pubblici. A meno che, tra Yemen e Siria, qualcosa non precipiti da qui a dicembre, un evento di portata tale da invertire le dinamiche: ad esempio, la distruzione di grandi siti produttivi o di pipeline per il trasporto. Ma visto che ormai la Siria è a pezzi a livello industriale, con il suo output petrolifero ai minimi dopo che la guerra ha devastato l’economia, dovrà essere un altro grande produttore Opec a subire il danno. Fossi in voi, quando si parla di petrolio, guarderei poco alla Siria e molto a Iran e Iraq: tanto più che un atto che faccia saltare l’accordo sul nucleare iraniano farebbe felice sia l’Arabia Saudita che Israele che gran parte della politica Usa, la quale l’anno prossimo è chiamata a eleggere il nuovo presidente. E le lobbies ebraica e dei petrolieri pesano parecchio.
Di più, il sistema finanziario Usa ha bisogno di un ritorno anche minimo del riciclo di petrodollari, visto che da un lato il continuo bruciare riserve in biglietti verdi sta rendendo molto alto il costo del finanziamento e dall’altro solo quell’extra garantito dall’export di petrolio permette agli assets denominati in dollari di essere acquistati e detenuti da investitori esteri, garantendo ai prezzi di restare alti e al dollaro di rimanere riserve di riferimento del commercio mondiale. Insomma, la dinamica attuale non può durare ancora per molto. Tanto più che ieri, con un solo giorno di ritardo da quanto avevo scritto lunedì rispetto ai Fondi sovrani che il governo Renzi cerca di portare a investire in Italia, Bloomberg ha diffuso la notizia che il più grande di questi soggetti, il Fondo sovrano norvegese, già dall’anno prossimo dovrà cominciare a liquidare assets e mettere mano agli 830 miliardi di dollari di detenzioni per tamponare i gap di budget statale, come ci mostra il grafico a fondo pagina.
Nei primi tre trimestri di quest’anno le entrate fiscali dall’estrazione del petrolio, infatti, sono calate del 42%, quindi nel 2016 le spese supereranno le entrate di budget e vista la natura pro-ciclica del calo dei prezzi del greggio, Oslo non può che cominciare a usare il suo Fondo come bancomat, un qualcosa che si credeva impossibile solo fino all’anno scorso. Lo scorso ottobre le stime per le entrate garantite dal petrolio con il barile fissato incautamente a 69 dollari hanno infatti giocato un brutto scherzo al ministero delle Finanze, visto che quest’anno la cifra reale con il barile a una media di 56 dollari è di 251,6 miliardi di corone, il 30% in meno del preventivato.
Attenzione, ovviamente non dobbiamo attenderci una vendita di massa di securities, né il fallimento della Norvegia, ma quando giganti simili si trovano costretti a mettere mano al salvadanaio di Stato, vuol dire che il punto di rottura per gli equilibri del mercato è molto vicino.