Cosa io pensi della famosa “ripresa” dell’economia Usa è noto da tempo: semplicemente non c’è stata. Anzi, c’è stata e in grande stile ma solo per la finanza, visto che gli indici di Borsa di Wall Street fino allo scorso giugno hanno garantito soldi a palate ad aziende e investitori grazie all’indebitamento allegro delle corporations attraverso obbligazioni che venivano emesse per finanziare i buybacks azionari. Insomma, se la cantano e se la suonano, ma dividendi e bonus sono piovuti in quantità. Per quanto riguarda l’economia reale, invece, nulla. A certificarlo ci sono sei indicatori regionali della Fed che in settembre erano tutti in territorio di contrazione: i nuovi ordinativi industriali letteralmente crollati, gli indici manifatturieri in area recessiva, le spese per i consumi al palo e le dinamiche salariali piantata da ormai anni. Venerdì scorso, poi, il tanto atteso dato sull’occupazione non agricola ha conficcato il proverbiale “nail in the coffin”, avendo registrato una lettura di 142mila unità, 60mila in meno del consensus e al di sotto anche delle stime più basse.
Ma c’è di peggio, perché anche la stima di agosto è stata rivista al ribasso, passando da 173mila a 136mila: in compenso, a settembre si sono persi 236mila posti di lavoro. Mettendo il dato in prospettiva abbiamo che l’aumento mensile medio nel 2015 è stato di 198mila unità contro una media di 260mila nel 2014. Le dinamiche salariali poi si sono schiantate, visto che la paga media oraria è rimasta piatta contro l’attesa di un aumento dello 0,2% ma la paga settimanale è scesa da 868.48 dollari a 865.61 dollari. Di più, i cittadini non presenti nella forza lavoro sono saliti di altre 579mila unità a settembre, portando il totale al record di 94,6 milioni di americani. La stessa forza lavoro è calata di 236mila unità a 148,8 milioni di persone, una lettura che ci porta a un tasso di partecipazione del 62,4%, lo stesso dell’ottobre 1977!
E proprio questo misuratore, ovvero la forza lavoro, mi servirà oggi per dimostravi come negli Usa non ci sia stata affatto ripresa per quanto riguarda l’economia reale ma solo per la finanza. Per l’esattezza, il dato che prenderò in esame è il numero delle persone fuori dalla forza lavoro (Not in labor force, Nilf) in tre archi temporali ben precisi messi in paragone con la crescita della popolazione totale statunitense nel medesimo periodo. Per dare un senso e mettere in prospettiva la stagnazione di lungo termine, prendiamo un periodo che va dal 1977 a oggi per quanto riguarda il numero degli esclusi dalla forza lavoro e lo dividiamo in tre “epoche” rappresentative.
La prima va dal 1977 al 1997, anni che ci offrono una varietà di condizioni macro-economiche visto che abbiamo 5 anni di stagflazione, due recessioni (1977 e 1982), forte crescita tra il 1983 e il 1990, un piccola recessione nel 1991 e crescita tra il 1993 e il 1997. La seconda epoca è quella dell’espansione su base più ampia che va dal 1982 al 2000, mentre la terza è quella dal 2000 al 2015, ovvero un periodo che ha visto alternarsi, bolle, crisi da esplosione delle stesse e ripresa con bassa crescita. Per tutti questi tre periodi, verranno comparati il numero degli esclusi dalla forza lavoro in rapporto alla popolazione totale Usa.
Nel 1977 avevamo una popolazione totale di 220 milioni di abitanti e 61,491 fuori dalla forza lavoro, mentre nel 1997 la popolazione era di 272 milioni e i Nilf 67,968 milioni: quindi, in quei venti anni la popolazione è cresciuta di 52 milioni (23,6%) e i Nilf di 6,477 milioni (10,5%). Veniamo ora al secondo periodo: nel 1982 la popolazione era di 232 milioni, mentre gli esclusi dalla forza lavoro erano 59,838 milioni di persone. A luglio del 2000, fine del ciclo di boom, la popolazione era di 282 milioni e i Nilf erano 68,880 milioni. Quindi, la popolazione è cresciuta dei 50 milioni (22,4%), mentre i Nilf di 9,042 milioni (15,1%).
Ed eccoci ora all’ultimo periodo, quello che potremmo definire attuale. Nel luglio 2000 la popolazione, come già detto era di 282 milioni di abitanti e i Nilf erano 68,880 milioni, mentre nel settembre del 2015 il dato sulla popolazione era di 322 milioni di abitanti, mentre quello degli esclusi dalla forza lavoro era di 94,718 milioni. Insomma, negli ultimi 15 anni la popolazione Usa è cresciuta di 40 milioni di persone (14,2%), mentre il numero dei Nilf è salito di 25,838 milioni (37,5%)! Insomma, quando la crescita economica è reale e non unicamente finanziaria, la crescita della popolazione è di molto superiore a quella dei Nilf, perché la creazione di lavoro mantiene il loro numero basso come tasso di espansione.
Il primo grafico a fondo pagina compara i due periodi e ci mostra come nel momento storico-economico che stiamo vivendo l’esercito dei Nilf sia cresciuto di qualcosa come 26 milioni di persone, il 15,6% della forza lavoro nazionale Usa di 166 milioni di persone. Calcolando, oltretutto, che circa 140 milioni di persone negli Usa hanno impieghi o professioni, quindi siano forza lavoro impiegata ma qualche milione guadagna meno di 10mila dollari l’anno: mi pare un dato un po’ stiracchiato per poter essere classificato come “occupazione”. Insomma, negli ultimi 15 anni la popolazione è cresciuta ma non il lavoro reale, quello pagato, quello che consente di vivere, mangiare, pagare le bollette, il mutuo e magari risparmiare qualcosa per i figli da mandare al college.
E attenzione, perché non viviamo più in un contesto globale in cui i Paesi emergenti, Cina in testa, garantiscono crescita e quindi dinamo anche per le economie più in difficoltà. E la conferma è arrivata l’altro giorno dal Fmi, il quale ha tagliato le stime di crescita globale per la quarta volta in dodici mesi, come ci mostra il secondo grafico, proprio a causa della frenata dei Paesi emergenti che spinge al ribasso la crescita mondiale. Il Fmi ha tagliato dello 0,2% le sue previsioni di crescita globale per quest’anno e il prossimo portandole rispettivamente al 3,1% (in calo dal 3,4% dello scorso anno) e al 3,6%, definendo l’espansione «modesta»: amano gli eufemismi, oltre lo sbagliare sempre le stime, a Washington.
I rischi al ribasso sono più pronunciati rispetto alle ultime valutazioni del luglio scorso, secondo il “World Economic Outlook” diffuso martedì a Lima, alla vigilia degli incontri annuali del Fmi e della Banca mondiale. «Sei anni dopo l’uscita dalla più profonda recessione del dopoguerra, il ritorno a un’espansione globale robusta e sincronizzata ancora non c’è», scrive nella introduzione al documento Maurice Obstfeld, il nuovo capo economista del Fmi, appena insediato per sostituire Olivier Blanchard, passato al Peterson Institute dopo sette anni di allarmi inascoltati dalle orecchie ammantate di ortodossia dell’Istituto.
L’attenzione degli economisti del Fondo è appunto concentrata verso le economie emergenti, sulle quali pesa il crollo dei prezzi delle materie prime, la ricaduta del passato boom creditizio e, in alcuni casi, l’instabilità politica. La crescita dei Paesi emergenti è in calo per il quinto anno consecutivo al 4%, prima di risalire, nelle previsioni del Fmi, al 4,5% nel 2016. La frenata della Cina, sulla quale ci sono ora serie preoccupazioni per la crescita futura, è in linea con le attese ma ha avuto ripercussioni maggiori del previsto, come dimostrano le turbolenze sui mercati finanziari nel mese di agosto. Se la Cina sta rallentando da oltre il 7% verso il 6%, per il Fmi la Russia e soprattutto il Brasile sono in recessione.
Su queste ultime due nazioni sono d’accordo, ma l’utilizzo di energia attuale mi fa dire senza timore di smentita che la crescita cinese reale non è superiore al 4,5%, un dato che Europa e Usa si sognano ma che impatterà in un mondo abituato a un Pil del Dragone che sfiorava la doppia cifra. Pesa poi l’incognita, per gli emergenti soprattutto, della restrizione delle condizioni finanziarie dovuta al potenziale rialzo dei tassi d’interesse negli Stati Uniti, decisione che il Fondo monetario ha a lungo consigliato di rinviare, ma Janet Yellen nel suo ultimo discorso ha fatto capire essere molto probabile entro la fine dell’anno.
Balle e sapete perché? Perché lunedì Goldman Sachs ha pubblicato un report il cui punto focale è rappresentato da questa frase: «Stante il contesto attuale, è interessante notare come dopo il dato sull’occupazione di venerdì scorso la probabilità implicita di un rialzo dei tassi da parte del mercato è passata dal 2016 al 2017». E, come sapete, il giudizio di Goldman Sachs conta qualcosa sulle scelte economiche e monetarie Usa. Ma non rallegriamoci troppo per questo rinvio, perché non fa altro che confermare il punto del mio articolo: ovvero, che negli Usa la ripresa non c’è mai stata, se non per la Borsa e come dal mondo del Qe infinito sia sempre più complicato e doloroso poter uscire, anche solo per un quarto di punto di aumento. Complimenti alle Banche centrali, un vero capolavoro.