Pochi giorni fa il più diffuso quotidiano economico italiano ha accreditato in prima pagina l’ipotesi di una maxi-fusione fra le prime tre banche del Paese per total assets (UniCredit, Intesa Sanpaolo e Mps). Ieri il principale concorrente in edicola ha riferito che il Tesoro sta seriamente considerando di spaccare in due tronconi il Credito cooperativo italiano, storicamente un sistema unico per strutture centrali bancarie e associative.
I due indirizzi – almeno a prima vista – segnalano un progress schizofrenico della politica creditizia: indifferentemente preoccupata, a seconda dei tempi e dei luoghi, di dare dimensione o di toglierla agli intermediari; di ridurre o aumentare artificialmente la concorrenza nel mercato bancario; di sottrarre l’attività bancaria a vecchie influenze della politica o di raccogliere nuove istanze politiche nel rimodellare il settore creditizio.
Il primo disegno – genericamente riferito a “una banca d’affari internazionale” e subito smentito dai gruppi citati – viene fatto risalire da rumor insistenti a due ex managing director della Goldman Sachs in Italia: Claudio Costamagna, da pochi mesi insediato personalmente dal premier Matteo Renzi alla presidenza della Cassa Depositi e Prestiti, e Massimo Tononi, ex sottosegretario al Tesoro nel governo Prodi-2 e da poche settimane presidente dello stesso Montepaschi, di cui il Tesoro è oggi azionista diretto. Benché apertamente ridicolizzata dal presidente uscente di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, l’ipotesi presentava profili evidenti sul piano strettamente politico. Dal punto di vista di Palazzo Chigi la definitiva messa in sicurezza di Mps si sarebbe accompagnata a due “rottamazioni” rilevanti: quella del controllo politico storico di Rocca Salimbeni (tuttora riferibile alla cosiddetta “minoranza Pd”) e quella tendenziale della grandi Fondazioni del Nord sui due “campioni nazionali” bancari basati a Milano.
Al pressing sulle autorità monetarie per piegare l’autoriforma delle 370 Bcc italiane al break-up del movimento non sembra estranea la lobbying – ancora una volta “toscanocentrica” – di Lorenzo Bini Smaghi: ex membro italiano nell’esecutivo Bce e attuale presidente del consiglio di sorveglianza del gigante francese Société Générale. Già in primavera Bini Smaghi – fiorentino molto legato a Renzi – aveva iniziato una campagna personale contro una presunta “gestione inefficiente” del Credito cooperativo in Italia. Due settimane fa “Lbs” ha partecipato al roadshow indetto a Bologna dal Cassa Centrale Banca di Trento, che ha richiamato per invito singoli una cinquantina di Bcc da varie regioni italiane: sul tavolo la nascita di un polo del credito cooperativo a guida trentina.
Di pochi giorni fa, infine, è il preannuncio che lo stesso Bini Smaghi sarà presidente di una Bcc toscana: quella che nascerà dalla fusione fra Chianti Banca e Bcc Banca di Pistoia. Chianti Banca ha rilevato le attività dell’ex Credito cooperativo fiorentino, posto in liquidazione coatta amministrativa nel 2012. Il Ccf era stato commissariato nel 2010 su proposta della Banca d’Italia quando era presidente Denis Verdini: allora plenipotenziario di Silvio Berlusconi in Forza Italia, oggi animatore di Ala, gruppo parlamentare decisivo in questi giorni nel sostenere in Senato il governo Renzi sulle riforme istituzionali.