L’intervista di Mario Draghi al Sole-24 Ore finisce per assumere di lineamenti di una “narrazione”, anzi: di una “contro-narrazione” (più politica che macroeconomica) rispetto a quella dipanata quotidianamente dallo storyteller italiano ufficiale, il premier Matteo Renzi. Probabilmente non era nelle intenzioni del presidente della Bce, giunto a metà mandato. Certamente, invece, il direttore del Sole-24 Ore, Roberto Napoletano, fin dalle prime righe presenta la lunga conversazione con Draghi come una ricapitolazione di una “svolta italiana” che daterebbe dal 2011.
I “quattro anni” in cui “tutto è cambiato” – secondo il titolo strillato a tutta prima pagina – iniziano quando i governatore della Banca d’Italia viene designato al vertice della banca centrale europea: nel pieno dell’attacco speculativo al debito italiano. E’ allora che Draghi co-firma con il suo predecessore Jean Claude Trichet una lettera in cui si dettano all’Italia dure condizioni di austerity per il sostegno ai BTp sotto pressione-spread.
E’ allora – l’incipit dell’intervista lo ricorda espressamente – che il Sole-24 Ore titola a tutta pagina “Fate presto”: a rimuovere il governo Berlusconi e a insediare l’esecutivo tecnico guidato da Mario Monti. E’ allora che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano saluta la nascita di un “Patto per l’Italia” che per qualche settimana ha associato Confindustria e Cgil, Lega Coop e Confcommercio, Abi, Confartigianato e molte altre organizzazioni. E’ a quel tavolo che il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia si fa fotografare mentre chiacchera con la numero uno della Cgil, Susanna Camusso.
Nell’autunno 2015, Draghi lascia dunque che il quotidiano di Confindustria rivendichi con orgoglio quella narrazione rispetto a quella in base alla quale la “nuova Italia” inizia nel febbraio 2014: con l’insediamento di Renzi a Palazzo Chigi e la chiusura della perentesi Napolitano-Monti, con l’appendice del governo Letta. Perché il Sole-24 Ore – alla fine del mandato di Giorgio Squinzi – alimenti una revisione alla lettura renziana del passato prossimo può essere in parte comprensibile. Perché il presidente della Bce vi si sia prestato – più o meno volontariamente – da ieri mattina è sicuramente oggetto di commenti, curiosità,congetture.
Se qualcosa – certamente – è cambiato del tutto negli ultimi quattro anni in Italia è la situazione del sistema bancario. Nel 2011 era ancora in piedi sulle proprie gambe, assai più di altro grandi sistemi creditizi duramente colpiti dalla crisi finanziaria. A fine 2015 sono invece le banche italiane ad essere sulle ginocchia: falcidiate dagli attacchi speculativi al rating e poi dalla recessione indotta dall’austerity, ma anche dall’entrata in vigore di regole di vigilanza adottate per crisi altrui (Spagna) e applicate con criteri discutibili. Di tutto questo Draghi – capo della Vigilanza italiana dal 2006 al 2011 e poi capo della Bce, che oggi esercita la nuova supervisione europea – nell’intervista quasi non parla. Si limita – brevemente, verso la fine di un’intervista fluviale – ad affermazioni di principio: “L’Unione bancaria va completata” e “La Banca d’Italia è stata protagonista” (solidarietà formale al governatore Ignazio Visco sotto attacco giudiziario e mediatico).
Non un accenno ai casi Mps o Popolare di Vicenza, su cui da più parti e più volte è stata chiamata in causa la sua responsabilità di vigilante italiano. Né una parola su alcune emergenze-Paese correnti sul fronte bancario: la Ue frena con argomenti formali la nascita di una semplice bad bank con garanzia pubblica, mentre altri grandi Stati dell’Unione hanno salvato di peso le loro banche fallite. Oppure l’insidiosissimo no di Bruxelles al salvataggio da parte del Fondo Interbancario di Banca Marche, CariFerrara, CariChieti e Banca Etruria: che da gennaio potrebbero teoricamente essere banco di prova di “bail-in” a spese dei correntisti. L’Europa delle banche e dei banchieri – e forse non solo quella – appare in ogni caso più frammentata che mai: a dispetto della soddisfazione espressa da Draghi a cento giorni dall’accordi salva-Grecia.
Il merito politico-economico dell’intervista non contiene novità di rilievo, anzi. La prospettiva di un QE-2 nell’euro – posta da settimane da Draghi sul tavolo Bce – viene ripresentata nell’intervista in termini rituali. E il riferimento a una ripartenza dell’inflazione da metà 2016 per tornare in avvistamento del 2% a fine 2017 sembra un argomento double face: che i falchi tedeschi potrebbero tranquillamente usare per stoppare il tentativo di “seconda volta” di Draghi sull’espansionismo monetario. Che per ora è destinato a concludersi nel settembre 2016: alla vigilia delle presidenziali americane. (A proposito di America: curioso che in un momento di tensione estrema tra Usa e Germania per il caso Volkswagen, Draghi abbia ritenuto prudente ribadire che “non c’è legame” fra le strategie delle due banche centrali, entrambe focalizzate sulla loro “giurisdizioni” valutarie).
E il governo italiano? Alle solite: il banchiere centrale più che promuoverlo lo incoraggia, ma sempre con apprensione. La riforma del mercato del lavoro, in fondo, nella prospettiva di Draghi è un suo suggerimento doverosamente seguito fin troppo tardi. Invece sbagliano i governi – come evidentemente quello italiano nella legge di bilancio 2016 – a non approfittare dell’eccezionalità dei “tassi zero” per rimettere in sesto i propri conti, tagliando spese correnti e rilanciando gli investimenti per riaccendere il Pil. Difficile che Renzi sia d’accordo con questa “narrazione”. Ma ancora una volta Draghi e Renzi sembrano aver bisogno l’uno dell’altr. Al primo non potrà certo dispiacere l’aggressività politica di Renzi nell’invocare più flessibilità – fiscale e monetaria – quando nel consiglio Bce si tornerà a battere i pugni sul tavolo del QE-2. Il premier italiano sa invece che il governatore con passaporto italiano a Francoforte e ottime entrature a Londra e Wall Street è ancora un alleato obbligato.