I miei lettori più assidui non hanno bisogno che lo ricordi loro, ma ogni tanto è meglio fare un consuntivo del proprio lavoro. Sono ormai mesi e mesi che presto particolare attenzione alle dinamiche del prezzo del petrolio e alle loro implicazioni geo-politiche e geo-finanziarie e probabilmente molti di voi saranno annoiati: mi spiace, ma scrivo ciò che ritengo interessante sapere in chiave futura, se volete le notizie del giorno ci sono i telegiornali. Bene, il 10 agosto scorso è stato pubblicato un mio articolo a proposito della crisi che stava investendo l’Arabia Saudita, primo di una lunga serie proseguita con questo e ancora questo, questo e quest’ultimo di sabato scorso.
Bene, quella che trovate più in basso è la prima pagina del Financial Times di ieri, il quotidiano della City londinese che dedicava l’apertura proprio all’Arabia Saudita e al suo debito in crescita a causa dei mancati introiti generati dall’export petrolifero stante i prezzi ai minimi, con il deficit di budget ormai al 20% del Pil. Non fraintendetemi, il mio non è un inelegante tentativo di autocelebrazione. Anzi, è il contrario. Ovvero, se ci sono arrivato io ad agosto scorso, com’è che il Financial Times ci ha messo tre mesi prima di dare la prima pagina alla crisi saudita, viste anche le implicazioni geopolitiche della stessa in chiave mediorientale? Forse perché i media cosiddetti ufficiali e autorevoli si divertono a nascondere la verità o a darla in pasto ai lettori in base alle esigenze di governi ed editori?
Temo proprio di sì, cari lettori. E la cosa più grave non è nemmeno questa, anche se poi vi dimostrerò come la manipolazione in atto sia di dimensioni epocali. La cosa peggiore è che il giorno precedente a quella prima pagina del Financial Times, ovvero lunedì 9 novembre, il primo ministro italiano, Matteo Renzi, dove si trovava in visita ufficiale, immagino anche per parlare di scambi commerciali e investimenti, visto che era lì per il battesimo di un progetto legato al trasporto italiano-saudita? Proprio in Arabia Saudita, da genio del timing politico qual è! Direte voi, era un appuntamento fissato da tempo, non poteva saperlo in anticipo della crisi. Al di là che i sauditi sono da sempre i principali finanziatori del terrorismo internazionale, quindi sarebbe meglio evitarli a prescindere, se sapevo io ad agosto che erano costretti a cancellare tutti gli investimenti per la crisi del petrolio, non lo sapevano a palazzo Chigi? Quale scusa migliore per prendere le distanze e mandare un bel segnale in codice a Vladimir Putin, capo di un Paese che invece il terrorismo lo combatte davvero e che grazie alle sanzioni volute da Washington (alleato storico dei sauditi) vede il nostro commercio bilaterale in enorme crisi? Non ci vuole Talleyrand, basta Bottarelli, guarda un po’.
Ed è recidivo, perché non più tardi di tre settimane fa si è imbarcato con una pletora di imprenditori e giornalisti in un road-show dell’azienda Italia in America Latina durato una settimana, forse non sapendo che le principali economie di quell’area, Brasile in testa, sono in recessione a causa della fine del super-ciclo delle materie prime! Altro colpo di genio e timing straordinario. E questo dopo che il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, si è lanciato in un corteggiamento dei Fondi sovrani, i quali sono tutti in crisi proprio per il crollo del prezzo del petrolio e la fine del riciclo di petrodollari nel sistema finanziario; addirittura, il mega-Fondo sovrano norvegese sconta perdite a bilancio per la prima volta, avendo forte esposizione su Volkswagen e sempre per la prima volta vedrà lo Stato usarlo come bancomat per tamponare i deficit di bilancio da mancati introiti da export petrolifero.
Ora, ironia a parte, chi è il consigliere economico del governo, Topo Gigio? E non pensiate che io attacchi Renzi per diversa appartenenza politica, è una mera constatazione di incapacità manifesta (ieri l’addio del quarto commissario alla spending review dovrebbe dare chiaramente l’idea di quale sia l’impostazione di questo governo, ovvero statalismo del peggior tipo), che però in Italia vale per tutti: la sinistra riunitasi sotto la guida keynesiana di Fassina è talmente fuori dal tempo da fare tenerezza, quasi servirebbe il Wwf, mentre il centrodestra della manifestazione di Bologna è una barzelletta che non fa ridere e che viene anche raccontata male, visto che l’idea di Salvini e la Meloni che gestiscono la transizione da euro a nuovo tallero è un pensiero che nemmeno il Kubrick più allucinato può contemplare. Del Movimento 5 Stelle evito di parlare, si commentano da soli ogni volta che aprono bocca o che, come l’altra notte al Senato, difendono a spada tratta gli interessi delle banche, smentendo clamorosamente con i fatti i loro strepiti da rivoluzionari in servizio permanente ed effettivo.
Ma la stampa è peggio della politica, fidatevi, anche se pare impossibile raggiungere queste vette. E non solo per la questione saudita. Prendiamo un’altra vicenda, ovvero il dato occupazionale degli Usa di venerdì scorso, quello che ha visto gli Stati Uniti creare 271mila posti di lavoro a ottobre contro un consensus che andava da 175mila a 190mila, portando il tasso di disoccupazione ufficiale al 5%, ovvero la piena occupazione per un mercato del lavoro fluido come quello statunitense. Tutte balle. Primo, il 54% di quel numero da record, ovvero 145mila posti di lavoro, è stato arbitrariamente conteggiato in base al modello nascita-morte, ovvero una stima dell’ammontare netto di posti di lavoro non conteggiati per chiusura attività e posti di lavoro non conteggiati ufficialmente per apertura di nuova attività: peccato che quel modello valga per un’economia bilanciata, non per quella Usa post-crisi e, caso strano, ha sovrastimanto il numero di posti di lavoro creati ma non registrati. Senza quelle unità lavorative arbitrarie, il numero ufficiale sarebbe di 126mila posti di lavoro creati a ottobre, sotto il consensus.
Ora guardate il grafico a fondo pagina, ci dimostra come stando a dati dello stesso Bureau of Labor Statistics statunitense, 378mila posti di lavoro creati a ottobre sono andati a persone con più di 55 anni, mentre la fascia tra i 25 e 54 anni ha visto sparire 119mila posti lavoro: insomma, si scaricano lavoratori “giovani” e con lavori a tempo pieno che impongono il pagamento delle spese sanitarie di Obamacare con lavoratori più anziani e quasi sempre part-time che accettano qualsiasi condizione e stipendio per il semplice fatto che hanno bisogno di lavorare ancora qualche anno per garantirsi la pensione. Una dinamica davvero da Paese che investe sul futuro sostenibile, tanto più che sempre in ottobre chi dichiarava di fare più di un lavoro è salito di 109mila unità, sintomo che per campare la gente espulsa dai posti di lavoro a tempo determinato accetta più di un lavoro part-time e sottopagato. E questo vale anche per quanto riguarda il computo generale, visto che preso per buono il numero ufficiale di 271mila unità, i dati stessi del Bureau of Labor Statistics ci dicono che i settori che hanno assunto sono quelli che utilizzano maggiormente il part-time e che offrono i salari più bassi, come i servizi personali, l’aiuto temporaneo, il commercio al dettaglio e il settore della ristorazione e del cosiddetto leisure time, ovvero camerieri e baristi.
Sapete quanti posti di lavoro ha aggiunto la manifattura al computo generale di ottobre? Zero. In compenso, il grafico a fondo pagina ci dimostra plasticamente cosa stia diventando il mercato del lavoro e l’economia Usa: dall’inizio della crisi, il comparto manifatturiero ha perso 1,4 milioni di posti di lavoro, prontamente rimpiazzati da 1,4 milioni di nuovi baristi e camerieri, i quali ovviamente godono delle stesse tutele di un lavoratore a tempo indeterminato di una grande azienda tessile, ad esempio. Il Bureau of Labor Statistics, per ottobre, parla di 44mila nuovi posti di lavoro creati nel commercio al dettaglio, un qualcosa che cozza un pochino con le continue letture in negativo delle vendite al dettaglio: si assume a fronte di risultati sempre peggiori del proprio business? No, si spacchetta il totale degli assunti da pochi posti di lavoro a tempo pieno in tanti posti di lavoro part-time, evitando così di pagare i bonus e i benefit correlati al lavoro a tempo indeterminato.
E veniamo ora al tasso di disoccupazione, il quale è ufficialmente al 5%: sapete dove sarebbe se venissero inclusi nel computo i cosiddetti “scoraggiati”, ovvero quelli che hanno smesso di cercare un lavoro dopo mesi e mesi di ricerche vane? Circa al 23%, un successone. E poi, come si può prendere per buono il 5% di disoccupazione quando ci sono ancora 94 milioni di americani fuori dalla forza lavoro? Che calcolo è, un tanto al chilo tipico di Obama! Normalmente, durante un periodo di ripresa economica (vera), la gente entra nella forza lavoro, non viene espulsa dalla stessa. E poi, se l’economia Usa è tanto sana, due domande: primo, perché metà dei 25enni americani abita ancora con i genitori, in un Paese dove a 18 anni si usciva di casa per andare al college e non si tornava più? Secondo, se l’economia è così scintillante e l’occupazione un sogno, perché mezzo mondo è terrorizzato dall’idea che la Fed alzi i tassi di un ridicolo quarto di punto a dicembre? Balle, sono tutte balle. Imbellettate e servite sul piatto d’argento dell’informazione autorevole da lacché incapaci del potere che si spacciano per giornalisti. Per quanto fingano di litigare, giornalismo all’amatriciana e politica da nani hanno bisogno l’uno dell’altro, esattamente come i Nuzzi di turno hanno bisogno degli indignati speciali travestiti da cattolici adulti per spacciare come giornalismo d’inchiesta il riciclaggio di documenti trafugati. In un mondo simile, torna in mente Benedetto Croce e la sua profezia sul governo degli onesti. Scusate lo sfogo.