È ufficiale, Mario Draghi è un disco rotto. Parlando nel corso di un’audizione al Parlamento europeo, l’altro giorno il numero uno della Bce ha voluto ribadire per milionesima volta il medesimo concetto: la Bce è pronta ad agire. L’Istituto centrale europeo «riesaminerà il livello dei suoi stimoli monetari all’economia a dicembre, pronti ad avvalerci di tutti gli strumenti disponibili nel caso giudicassimo che gli obiettivi di ripristino dell’inflazione a livelli accettabili risultassero a rischio», ha sottolineato Draghi, per il quale se si sostanziasse questa dinamica «non esiteremo ad agire». In particolare, la Bce monitorerà da vicino i rischi alla stabilità dei prezzi e valuterà la forza e la persistenza dei fattori che stanno rallentando il ritorno dell’inflazione a livelli vicini al 2%.
Draghi ha, infatti, eloquentemente sostenuto che «nel caso non si vedesse un aggiustamento dell’inflazione coerente con i nostri obiettivi, i nostri acquisti potranno proseguire oltre settembre 2016. Inoltre, altri strumenti potrebbero essere attivati, se necessario, per rafforzare l’impatto di questo programma». Le ultime rilevazioni di mercato danno un consenso ormai consolidato per un taglio del tasso sui depositi marginali almeno di 10 punti base, ma tale prospettiva appare a questo punto addirittura conservativa (si parla di 15 punti base o più): io ho un timore folle, che Draghi vada a -0,50% e in contemporanea la Fed alzi di un quarto di punto, sperando in un effetto off-setting delle mosse in contemporanea.
Se lo fanno, si schianta tutto davvero, perché la crisi degli emergenti deflagrerebbe e il fallout investirebbe a livello globale tutti i player in gioco attraverso l’interconnessione finanziaria. Inoltre, stando a quanto riportato in esclusiva dall’agenzia Reuters e non smentito da Francoforte, la Bce sta esaminando la possibilità di estendere il programma di Quantitative easing anche ai bond degli enti locali. Eh già, questa è l’ultima pensata della Bce. E questa rappresentata nel primo grafico a fondo pagina è stata la reazione del mercato alla stessa. Insomma, disperata com’è dal poter comprare più assets per cercare di stimolare quell’inflazione che finora non si è palesata, l’Eurotower, in vista dell’ampliamento del piano di Qe annunciato per la riunione del board del 3 dicembre prossimo, starebbe esaminando l’acquisto di bond municipali di città come Parigi, Madrid e Mainz o land come la Baviera.
Stando a dati Thomson Reuters, sono in circolazione bond emessi da città o regioni europee per un controvalore di almeno 500 miliardi di dollari, con le emissioni delle regioni che solo nell’ultimo anno sono arrivate a 76 miliardi di controvalore. Qualche piccolo rischio di default era prezzato nella reazione del mercato? Tranquilli, una fonte anonima della Bce ha fatto notare che quei bond hanno la garanzia statale. Ah beh, allora siamo a posto con paesi come Italia, Spagna e Portogallo, come ci mostra il secondo grafico relativo alle dinamiche della ratio debito/Pil, oltretutto relative agli anni della cosiddetta austerity e della troika.
Meglio stendere un velo pietoso, perché l’idea che un domani nel bilancio della Banca centrale europeo finiscano bond municipali magari di Messina, dove non c’è l’acqua da una settimana, o di Roma che rappresenta la disfunzionalità e la bancarotta fatta città mi fa venire i brividi (e non pensiate che molte città spagnole, portoghesi o francesi siano molto meglio a livello di conti pubblici, anzi, ma almeno hanno il divieto per legge di contrarre derivati, cosa che invece i nostri enti locali fanno con molta leggerezza).
D’altra parte, le dinamiche dell’inflazione si sono indebolite, principalmente a causa del calo dei prezzi del petrolio e per l’effetto rinviato del rafforzamento dell’euro. In particolare, «si è indebolito il segnale di una sostenuta inversione di tendenza nell’andamento dell’inflazione core». In sostanza, a detta di Draghi, l’inflazione resta bassa e va monitorata da vicino. «Mentre la ripresa rafforzerà gradualmente l’inflazione, la protratta debolezza economica degli anni passati continuerà a pesare sulla crescita dei salari nominali e questo potrebbe moderare in futuro la pressione sui prezzi», ha chiosato.
E anche gli ultimi dati macro hanno confermato che la ripresa economica nell’area euro sta progredendo moderatamente: «Finora l’attività ha mostrato un qualche grado di resistenza a fronte delle influenze esterne che tendono a indebolire la domanda. Mentre la domanda esterna ha frenato, le quote di esportazioni sono cresciute», ha osservato ancora il numero uno dell’Eurotower. Non solo: «I costi dell’energia più bassi e le nostre misure di politica monetaria stanno sostenendo i consumi e in maniera crescente la formazione di capitale. Insomma, sono chiaramente visibili i rischi al ribasso sulla crescita e sul commercio». Detto fatto, dopo le dichiarazioni di Draghi l’euro ha toccato un minimo a 1,0691 dollari e lo spread Btp/Bund è sceso sotto 100 punti base, fino al minimo intraday a 97 punti base, mentre il rendimento degli Schatz tedeschi a due anni ha aggiornato il minimo storico al -0,37%: il mondo dei pazzi. Ma i giornali sono meravigliosi: parlano di Draghi pronto a intervenire, non di Draghi che ha fallito finora la missione di innalzare l’inflazione verso il target del 2%.
E la crescita dell’eurozona, invece, come va? I dati sono usciti proprio ieri, freschi freschi. Accelera la Francia, rallenta la Germania:?il risultato è un pareggio tra i due pesi massimi dell’economia europea nel terzo trimestre, il tutto però nel quadro di un’attenuazione della ripresa economica dell’area euro. In parole povere, invece che migliorare, si rallenta, come ci mostra il grafico a fondo pagina, il quale inchioda plasticamente la Finlandia al suo ruolo di fanalino di coda dell’eurozona: proprio la stessa Finlandia paladina dell’austerity e inflessibile sul caso greco.
Nel periodo luglio-settembre, il Pil nei 19 paesi che condividono la moneta unica ha segnato un aumento congiunturale dello 0,3% (+1,6% annuo), stando alla stima preliminare diffusa da Eurostat, contro il +0,4% (+1,5% annuo) nel secondo trimestre. Il dato è lievemente inferiore alle attese medie degli analisti ed è influenzato negativamente dal rallentamento dell’export verso i mercati emergenti (pensate cosa succederà se la Fed alza i tassi..). Il Prodotto interno lordo della Francia è aumentato dello 0,3% nel terzo trimestre dopo la stagnazione del secondo trimestre: l’incremento sarebbe particolarmente legato a una ripresa dei consumi delle famiglie, che è aumentata dello 0,3% principalmente per una maggiore spesa energetica, mentre frena il commercio estero. Su base annua, la crescita è dell’1,2%, in linea con le aspettative degli analisti. Il Pil della Germania ha registrato invece una leggera decelerazione nel terzo trimestre con un progresso dello 0,3% rispetto al mese precedente: il principale motore di crescita sono i consumi privati, mentre il saldo nel commercio con l’estero, tradizionale punto di forza della Germania, questa volta ha avuto un impatto negativo sui conti nazionali, e anche gli investimenti aziendali hanno subìto un rallentamento.
«Le turbolenze nei mercati emergenti e il rallentamento cinese – osserva l’economista di Ing Carsten Brzeski – hanno lasciato i segni sull’economia tedesca». Anche i dati provenienti dalle altre economie europee mostrano una crescita moderata, se non debole: in Olanda la crescita si è fermata a un deludente +0,1% sul trimestre precedente (+1,9% su base annua), mentre in Portogallo è stata pari a zero. Bene invece i Paesi dell’Est europeo, con la Polonia che fa segnare un +0,9% (+3,6%annuo) congiunturale che prelude a una crescita annua ben oltre il 3% per Varsavia. Molto buono anche il dato della Repubblica Ceca, con un +4,3% annuo (+0,5% sul trimestre precedente) e della Slovacchia (+0,9% e +3,5%).
E l’Italia del miracoloso Renzi e del Jobs Act? Stando le stime preliminari dell’Istat, il Pil è aumentato dello 0,2% rispetto al trimestre precedente, un dato inferiore alle aspettative degli economisti che stimavano un +0,3%. Nel primo trimestre dell’anno il Pil era cresciuto, su base trimestrale, dello 0,4% e nel secondo trimestre dello 0,3%: su base tendenziale il terzo trimestre ha evidenziato una crescita dello 0,9% a fronte di una stima pari a +1%. Insomma, si rallenta frazionalmente, ma la questione è un’altra: anche quando i trimestri venivano giudicati positivi e Confindustria si accodava al carrozzone dell’ottimismo da discount, si era sempre nel campo di un anemico zero virgola. È crescita questa, a fronte dei miliardi di Mario Draghi sta buttando per dare una ripulita ai bilanci bancari?
L’ho detto prima che partisse: il Qe nasce un fallimento e tale sarà. E sapete perché? È semplice, perché Qe e tassi negativi non fanno altro che stimolare ciò che statutariamente volevano combattere: deflazione. Sul finire di ottobre, più della metà degli emettenti di debito sovrano europeo vedevano i loro titoli a 2 anni con rendimento negativo. Non è una novità assoluta, visto che in gennaio, 1,4 triliardi di euro di debito europeo superiore a 1 anno tradava con yield negativo in vista del Qe della Bce. Bene, oggi la situazione è peggiorata: scordate quegli 1,4 triliardi e fate conoscenza con il nuovo record, visto nella settimana di trading terminata il 30 ottobre, il debito europeo con rendimento negativo è passato da un controvalore di 2 triliardi a 2,6 triliardi, schiantando anche il record precedente di aprile quando si verificò lo shock sul Bund. Ecco perché vi dico che i rendimenti negativi portano come conseguenza la deflazione.
E il problema della bassa inflazione è già evidente anche nell’Europa che non adotta l’euro, ma ha sposato la politica dei tassi bassissimi o negativi, visti i casi della Svizzera post-peg, della Svezia bloccata a zero dall’inizio del 2013 nonostante il Qe in continua espansione e della Danimarca ferma a 0,5%, nonostante il taglio dei tassi. Insomma, la ricetta non funziona e siccome l’unico obiettivo in un mondo che sta annegando in 200 trilioni di debito è proprio stimolare inflazione, il timore è che l’esperimento vada fuori controllo, arrivando quindi al rischio opposto, l’iperinflazione. Ma c’è dell’altro e forse di peggio. La cosiddetta politica di tassi di interesse negativi (Nirp) doveva spingere la gente a utilizzare i propri risparmi per investire nel mercato o nell’economia reale, essendo i tassi negativi un disincentivo all’accantonamento. Il problema è che con tutti che vanno front-run agli acquisti della Bce e con i rendimenti che continuano a schiantarsi, segnalando uno tsunami di deflazione, tenere i soldi in banca ha un senso eccome.
Insomma, i risparmi dei cittadini stanno salendo, soprattutto in Svizzera e Svezia dove questa dinamica è in atto dalla fine del 2013: tassi ultra-bassi potrebbero perversamente portare a una maggiore propensione al risparmio, anche per l’incertezza legata al sistema pensionistico. Di più, nel suo studio al riguardo, Bank of America non solo conferma l’aumento dei risparmi, ma certifica anche che le aziende in Europa stanno compiendo deleverage, non releverage e stanno dando vita a buybacks di bond e non titoli.
Complimenti a Draghi, un capolavoro. Adesso attendiamo con ansia la ciliegina sulla torta il 3 dicembre prossimo.