Ci ho pensato molto prima di scrivere questo articolo, perché nel mare magnum della concitazione e dell’emozionalità si rischia di trascendere o, peggio, di dare sfogo a bassi istinti e paure irrazionali. Poi ho deciso che il compito di un giornalista è dare le notizie, quindi questo articolo (più lungo del solito, proprio per questo motivo) è il mio contributo nella ricerca di un’interpretazione – non scomodo la verità, né tantomeno il senso, perché 129 morti non hanno senso mai – ai fatti di Parigi di venerdì scorso. I miei sono solo dati di fatto, cose accadute o dette a cui cerco di dare un filo logico interpretativo. Quasi certamente sbagliando, lo so.
Bene, Su Paris Match del 2 ottobre il giudice Trévédic profetizzava: «Gli attentati in Francia saranno di una scala paragonabile all’11 settembre», seguito da Le Nouvel Observateur, per il quale «I servizi temono un 11 settembre francese». Non parliamo di febbraio, post-Charlie Hebdo, ma di un mese e poco più fa. Oltretutto, con Parigi che alla fine di questo mese ospiterà il Vertice sul clima, quindi con l’intelligence che avrebbe già da tempo essere stata al lavoro. Com’è possibile che 8-9 terroristi in abiti scuri, passamontagna e armi da guerra – oltre alla cinture esplosive nascoste – abbiano potuto scatenare in contemporanea quattro attacchi in altrettanti punti della città, in perfetto stile commando delle forze speciali, cogliendo totalmente impreparata l’intelligence d’Oltralpe? Oltretutto, dopo quanto accaduto a gennaio nella redazione del giornale satirico.
Certo, combattiamo contro un esercito fantasma, senza divise e senza schieramento, che può colpire ovunque, ma così mi pare davvero eccessivo. Tanto più che i terroristi sono stati così sfrontati da porre come bersaglio grosso lo Stade de France, dove se i kamikaze fossero riusciti a entrare nelle tribune, oggi staremo contando migliaia di morti, sia per la deflagrazione che schiacciati nella calca da panico. Hanno fallito grazie al cielo e il computo di quell’attacco è stato basso, ma davano per certo che sarebbero riusciti a entrare: in compenso, le altre azioni che in una logica puramente militare dovevano servire a tenere occupata la polizia in altre parti della città, si sono tramutate in una mattanza, con 100 morti solo al Bataclan: ritorsione per la mancata strage allo stadio? Come gli ostaggi della sala da concerti, anche i terroristi hanno Twitter e Whatsapp, quindi potevano sapere dell’epilogo non positivo dai compagni prima che questi si facessero esplodere o venissero colpiti.
Poi i passaporti, i quali sono stati accomunati alla patente di Choulibalì, il terrorista che guidava il commando di Charlie Hebdo e che lasciò proprio la licenza di guida in macchina e venne scoperto e poi ucciso durante un assedio. Qui sappiamo che sono stati trovati due passaporti: uno siriano e uno egiziano. Immediatamente si è detto che quello siriano era di un profugo entrato da poco nel Paese, scatenando la psicosi visto il flusso enorme di cittadini stranieri giunti in Europa dalla scorsa estate in poi. Può essere vero, se lo dicono le autorità francesi, ma attenzione perché se fosse davvero passato da Grecia e Serbia, avrebbe forse prima fatto tappa in Turchia, il più grande mercato di passaporti falsi del mondo, a detta degli specialisti dell’intelligence. Con 1000 dollari, passato il confino turco-siriano, puoi diventare della nazionalità che ti pare. E poi, altre due particolarità. Primo, uno dei due kamikaze dello Stade de France è stato ucciso dalla polizia durante uno scontro a fuoco, quindi appare plausibile e normale che il suo passaporto fosse integro, ma il secondo si è fatto esplodere, come fa il suo documento a non essere ridotto in briciole? E ancora, al di là della stranezza di un terrorista che entra in azione con l’idea di immolarsi – aveva la cintura esplosiva – ma si premura di portare dietro il passaporto, il fatto che il secondo documento sia egiziano crea immediatamente il collegamento tra cellula dell’Isis operante in quel Paese e l’abbattimento dell’area russo sul Sinai di due settimane fa: caso chiuso, è stato certamente l’Isis. Comodo, non c’è che dire.
Ma veniamo alla chiave geopolitica possibile di questo attentato spaventoso. Stando a Debka File, contro la Siria, fin dal 2011, fu lanciata «una campagna per arruolare volontari islamici per combattere a fianco dei ribelli siriani. L’esercito turco li alloggerà, li addestrerà e assicurerà il loro passaggio in Siria», l’articolo si intitolava “Nato to give rebels anti-tank weapons” ed è stato pubblicato il 14 agosto di quattro anni. E chi era al centro di questa operazione? Principalmente non gli Usa o l’Arabia Saudita, finanziatori dell’Isis per loro stessa ammissione, ma soprattutto la Turchia, la quale però è membro della Nato. E a cosa serve l’Isis, nato dalla costola più estrema di Al Qaeda? Agli interessi sauditi, ovvero riconquistare la Siria all’islamismo wahabita, salvo poi estendere il piano di conquista all’Iraq. Il ruolo della Turchia però è fondamentale: Ankara mantiene i suoi terroristi per creare una zona-cuscinetto in Siria, che intende poi inglobare allo Stato turco, una sorta di enclave ottomana.
L’interesse convergente dei governi occidentali, Usa e Gran Bretagna in testa, è invece quello di depotenziare l’influenza russa, arrivando a togliere alla flotta di Mosca la sua unica base nel Mediterraneo. E perché questo dovrebbe interessare alla Turchia? Ce lo mostra la mappa a fondo pagina: eliminare Assad per non dover deviare il gasdotto Qatar-Turchia, il quale dovrebbe porre fino alla dominazione russa sull’export energetico verso l’Europa.
Ancora a gennaio di quest’anno per Mosca la nuova tratta turca era prioritaria per ottenere l’obiettivo di bypassare il territorio ucraino, mentre adesso Gazprom punta tutto sul link diretto tra il Mar Baltico e la Germania, denominato Nord Stream2, ovvero l’ampliamento della prima rotta. Certo, Putin corre qualche rischio puntando tutto su Nord Stream2, perché ad esempio il progetto potrebbe incontrare l’opposizione dell’Ue, visto a metà ottobre il Commissario europeo all’Energia, Miguel Arias Canete, ha dichiarato che «questo collegamento rischia di concentrare l’80% delle importazioni di gas dal blocco russo su un’unica tratta», mentre le altre nazioni dell’Est hanno colto la sponda di Bruxelles per sottolineare i rischi che comporta bypassare l’Ucraina. Per tutta risposta, Gazprom ha fatto spallucce, sottolineando che i mercati chiave del programma Nord Stream2 sono quelli che stanno facendo aumentare le vendite di gas russo, con l’export verso l’Europa che all’inizio di questo mese era già salito del 36% su base annua.
Insomma, un incrocio geopolitico e geoenergetico enorme, il quale ci fa capire in maniera elementare ma incontrovertibile che alla radice della disputa siriana e della spaccatura tra le parti in causa ci sono dispute energetiche tra i due assi regionali di potere, più che la figura e il governo di Bashar al Assad. Come andrà a finire fra Turchia e Russia? Chi la spunterà? Difficile dirlo con certezza, soprattutto perché la situazione sul campo ma anche quella diplomatica sono fluide e in divenire continuo. Ma fossi in Ankara mi muoverei con molta attenzione, visto che se Erdogan davvero intende distruggere il progetto TurkStream come ritorsione al supporto militare di Mosca alla Siria deve sperare che Mosca e Teheran non abbiano successo nella loro difesa di Assad, altrimenti non ci sarebbe speranza nemmeno per la rotta alternativa dal Qatar, quella rappresentata dalla linea verde nella seconda cartina e che vede la Turchia come corridoio per arrivare al cuore dell’Europa.
Se poi davvero lo stesso Erdogan pensasse di poter dar seguito alla sua minaccia di poter fare a meno del gas russo, potendone trovare altrove, lo inviterei caldamente guardare il grafico a fondo pagina, dal quale si evince che alla luce degli attuali schieramenti e alleanze in campo, Ankara farebbe davvero bene a pensarci due volte prima di fare la dura con il Cremlino. Insomma, va spezzato il fronte Siria-Russia-Iraq-Iran, sia per ragione energetiche, sia per la troppa influenza di Mosca sull’area fondamentale del Medio Oriente, dove gli errori madornali dell’Occidente avevano creato un vuoto politico e diplomatico.
Come fare? Due strade: coalizzarsi con Mosca per non lasciarla sola ed egemone nella lotta all’Isis, come si è prospettato l’altro giorno da Vienna in vista del G20 apertosi ieri oppure andare “boots in the ground”, magari non in Siria dove si lascerà operare la Turchia, ma in Iraq. Ed ecco altre due fantastiche coincidenze. Prima, proprio ieri è giunta la notizia della scoperta di una fossa comune contenente i corpi di 50 uomini yazidi a Shingal, villaggio a sud della città irachena di Sinjar, recentemente liberata dallo Stato islamico, il tutto dopo che il giorno precedente le forze curde Peshmerga avevano trovato una fossa contenente i corpi di 80 ragazze yazide. Una barbarie, tipica dell’Isis, ma che potrebbe fornire quel sovrappiù di indignazione internazionale da giustificare il casus belli dell’intervento nel Paese, tanto più che oggi l’Iraq è il primo fornitore di petrolio degli Usa e quindi si trova tra l’incudine russa e il martello di Washington, molto manipolabile, viste anche istituzioni non esattamente solide e trasparenti. E se la memoria non vi inganna, anche l’attacco alla Serbia del 1999 fu giustificato dalla scoperta di una fossa comune, quella di Racak che fece indignare sia la Albright che Holbrooke: peccato che a guerra finita il patologo indipendente del Tribunale penale dell’Aja per i crimini di guerra in Jugoaslavia (Ictj) disse che si trattò di una messa in scena, con cadaveri morti in tempi e modi diversi ammassati ad hoc. È storia, il patologo si chiama Emilio Perez Pujol e le sue parole furono riprese da Sunday Times e Le Monde.
Seconda coincidenza, dove si è aperto ieri il G20, in prima istanza dedicato al clima e poi, ovviamente, deviato al tema della lotta al terrorismo dopo i fatti di Parigi? Ad Antalya, in Turchia con il presidente Erdogan, quantomeno ondivago verso l’Isis in chiave anti-curda, come gran cerimoniere di un vertice che vedrà le decisioni più importanti prese in corridoi e stanze chiuse nei mille vertici bi e trilaterali che si terranno. Un bel cambio di equilibri, non c’è che dire, rispetto a una settimana fa, quando Occidente e Turchia erano quantomeno ghettizzati dall’egemonia russa nell’area e la loro azione iniziata nell’agosto del 2014 attraverso i raid aerei sbugiardata davanti al mondo intero dall’intervento militare russo.
C’è poi un’altra dinamica in atto, ovvero quella che riguarda l’Iran, direttamente impegnato nella lotta all’Isis in Siria insieme a milizie fedeli al governo di Damasco, russi ed Hezbollah. Come sapete Teheran è impegnato contemporaneamente nella proxy war in Yemen contro l’Arabia Saudita, vero finanziatore dell’Isis insieme al Qatar: ufficialmente Riyad è intervenuta per impedire che il Paese finisca smembrato nelle mani dei terroristi, ma, in realtà, per stroncare gli Houthi, supportati appunto dall’Iran. Insomma, per i sauditi il governo legittimo sarebbe ancora quello del fuggitivo Abd Rabbo Mansour Hadi, riparato proprio a Riyad. E parliamo di una guerra, pressoché misconosciuta, ma che nello scorso marzo – quando sono iniziati i raid sauditi – contava già 5428 i morti, un milione e mezzo gli sfollati, mentre i profughi sono già 114mila, molti di loro in fuga verso la Somalia.
Insomma, gli schieramenti in campo in Siria sono gli stessi in Yemen, con però un qualcosa in più a livello di interessi economici. La coalizione che sta bombardando lo Yemen, infatti, include cinque membri del Gulf Cooperation Council – oltre all’Arabia Saudita ci sono Kuwait, Emirati, Qatar e Bahrein – e anche, a detta dei sauditi, Pakistan, Marocco, Giordania, Egitto e Sudan: ovvero, Riyad è andata a battere cassa dai Paesi cui ha fornito supporto diplomatico e finanziario. Di più, l’Arabia Saudita ha incassato anche il sostegno esterno dell’Autorità nazionale palestinese. Ma avere dalla propria i Paesi del Golfo vuol dire anche sventare il piano russo-iraniano-iracheno di spaccare in due l’Opec alla riunione del prossimo 4 dicembre a Vienna, dove si deciderà sul livello di produzione di petrolio, con i prezzi ancora drammaticamente bassi e con Riyad che già sconta un deficit di budget pari al 20% del Pil. Senza contare che se le sanzioni contro Teheran saranno tolte, l’Iran potrebbe presto tornare sul mercato a seguito dell’accordo sul nucleare, tanto da aver già fatto sapere che entro sei mesi sarebbe in grado di aumentare la sua produzione di 1 milione di barili al giorno dagli attuali 2,8 milioni. Insomma, nuova offerta molto sgradita, visto che andrebbe ad aumentare la saturazione sul mercato e a innescare spirali ribassiste sui prezzi.
E tu guarda le combinazioni: proprio in questi giorni il presidente iraniano, Hassan Rohani, doveva essere a Parigi e Roma, nell’ambito di incontri internazionali per la normalizzazione dei rapporti tra Iran e Occidente dopo l’accordo sul nucleare. Dopo l’attentato di Parigi, visita annullata. In tre capitali del mondo penso che ci sia gente che non stia affatto piangendo per questa fortuita coincidenza. Ci sono poi i mercati, molto sensibili all’instabilità geopolitica e al terrorismo: ieri le Borse mediorientali – aperte la domenica – sono andate tutte a picco, soprattutto Dubai (-3,7%), Riyad (-2,6%) e il Cairo ai minimi da due anni, facendo presagire un lunedì nero per tutte le altre. Accidenti, rischio bagno per molti investitori. Ma non per tutti, perché come mi ha fatto notare un amico che lavora sui mercati finanziari e come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, tra giovedì e venerdì scorsi, all’improvviso, i grossi operatori (le cosiddette mani forti, in rosso nel grafico) sono corsi a smobilizzare i loro grossi volumi in ingresso sul Ftse-Mib. Eppure fino al giorno prima avevano spinto al rialzo la Borsa e con volumi notevoli, basti vedere il top della linea rossa: ma tu guarda un po’ le casualità, proprio poco prima degli attacchi terroristici. Un caso, però con un precedente grosso come una casa, ovvero la vendita di opzioni call sui titoli della linee aree interessate dagli attacchi dell’11 settembre poco prima che questi avvenissero. Coincidenze, casi. O, semplicemente, dati di fatto e domande che vi lascio come esercizio di libera interpretazione e libera informazione, senza certezze, né accuse verso alcuno.
Una cosa però è certa dalla messe di dati e avvenimenti che ho messo in fila: l’attentato di Parigi ha cambiato gli equilibri geopolitici e fatto comodo a molti. Vi lascio con le parole profetiche del presidente siriano Bashar al-Assad, rilasciate nel corso di un’intervista al giornale tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, giugno 2013: «Se gli europei consegneranno le armi ai terroristi, il cortile d’Europa si trasformerà in un terreno propizio al terrorismo e l’Europa ne pagherà il prezzo». Eh già, 129 morti e 352 feriti sono un prezzo salato. Anzi, mi preme dirvi ancora una cosa: l’uomo ritratto nella foto a fondo patina è Qasem Soleimani, generale delle Guardie della Rivoluzione iraniane, quindi un filino islamico. Combatte l’Isis in prima linea in Iraq e in Siria ed è stato il protagonista della liberazione di Nostra Signora dell’Assunzione ad Aleppo, di cui – una volta scacciati i barbari – ha voluto far suonare le campane. Così, tanto per dirlo alle tante Fallaci e ai tanti Belpietro in libera circolazione in queste tragiche ore.