Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, Wall Street restò chiusa per una settimana, salvo poi registrare alla riapertura una brusca caduta del 7%. Ribassi cospicui, anche se non eccezionali, hanno fatto seguito agli attentati di Madrid, Londra e alla strage di Charlie Hebdo. Gli esperti interpellati da Il Sole 24 Ore nel weekend dopo i massacri perpetrati a Parigi si sono spinti a ritenere che lo shock potesse essere così forte da incidere sulle scelte delle banche centrali, obbligando la Fed a un nuovo rinvio sul fronte dei tassi.
La realtà è stata ben diversa. Al contrario delle previsioni, i mercati non solo hanno retto all’impatto negativo, ma, Parigi in testa, hanno recuperato le perdite accusate nella settimana precedente. Non solo. La conferma dell’imminente rialzo dei tassi Usa è stata accolta con un certo sollievo dagli operatori, stressati da un’attesa infinita. E i sondaggi condotti dalla Bce, ha sottolineato il membro lussemburghese della banca centrale, dimostrano che gli attentati non hanno per ora scalfito la fiducia di famiglie e imprese del Vecchio Continente.
Non è difficile capire il cambio di atteggiamento. Gli attentati di inizio millennio erano il “cigno nero”, l’evento improvviso e imprevisto che andava a sovvertire il trend già metabolizzato dai mercati che, da sempre, temono l’imprevisto più di qualsiasi catastrofe. Oggi, al contrario, il terrorismo è una variabile già contemplata nei vari scenari operativi. Certo, può incidere nel breve-medio termine sull’andamento di alcuni settori, dal turismo ai viaggi (in negativo) o sulla difesa (con un incremento dei prezzi dei titoli).
Per carità, la guerra al terrore peserà, eccome, nelle scelte della finanza pubblica, come già è stato deciso a Bruxelles su richiesta della Francia. Il Vecchio Continente si ritrova, di malavoglia, in prima linea in una contesa che, spiega un’acuta analisi di Limes, nasce dall’eterno conflitto tra sciiti e sunniti. Una situazione difficile da maneggiare: una vittoria militare sullo Stato islamico rischia di tradursi in una nuova sconfitta politica, in assenza di interlocutori credibili; un’offensiva di terra della sola Europa non è praticabile, ma gli Usa, nell’ultimo anno della presidenza Obama, sono più che mai restii a un impegno diretto.
Ma è molto difficile che possa condizionare più di tanto il quadro generale, segnato nei mesi scorsi dal calo dei prezzi delle materie prime, indizio della frenata cinese e del calo delle economie emergenti. Ma anche dalla politica espansiva della Bce che sta consentendo alle imprese italiane (ahimè, anche alle meno virtuose) di rialzare la testa e alla finanza pubblica di immagazzinare, grazie al calo dei tassi, possibili risparmi da esibire in primavera in occasione dell’esame della Commissione europea.
Di fronte a queste incognite l’Unione europea, punto delicato dello scacchiere geopolitico, potrà resistere a una prospettiva di bassa crescita, alle esigenze della sicurezza e all’esplosione dell’afflusso di profughi (che comunque non si fermerà) solo se ci sarà un minimo di crescita, possibile finché i bassi prezzi del petrolio scongiureranno i rischi di una nuova recessione. Altrimenti le cose potrebbero peggiorare. Anche perché il voto in Spagna, appuntamento alle urne il 20 dicembre, rischia di introdurre nuove variabili nell’Eurozona ove le forze euroscettiche hanno sempre più peso. Certo, non mancano gli aspetti positivi: c’è un riavvicinamento evidente con la Russia che sfocerà nella fine delle sanzioni. Non a caso la borsa russa, che a gennaio veniva data per perduta, è oggi in rialzo del 32% rispetto all’inizio del 2015.
In questa cornice aggrappiamoci al Quantitative easing 2 che Mario Draghi si appresta a lanciare. E alle politiche fiscali che, nei fatti, si stanno facendo espansive: l’austerità, a parole, resta in vigore, ma nei fatti è sforacchiata un po’ da tutti, compresi i tedeschi. I mercati ci credono e sfruttano le opportunità che governi e banche centrali sono costretti a concedere. Per ora va così, ma attenzione: i cigni neri possono colpire ancora.