Delle due, l’una: o Francois Hollande ha delle doti paranormali oppure porta sfortuna. Parlando dell’impegno della Francia contro il terrorismo, infatti, giovedì il presidente francese ricordò che nel 2013 la Francia ha aiutato il Mali, ottenendo una vittoria e «i terroristi lo sanno, per questo ci considerano nemici». E ancora: «I terroristi nel 2012 si sono accaniti contro la cultura del Mali, hanno distrutto i simboli della cultura, imposto divieti, le donne sono state sottomesse, gli uomini umiliati, la Francia ha dovuto prendersi le sue responsabilità e portare avanti azioni importanti». E mentre venivano pronunciate queste parole, a Bamako, capitale del Mali, si teneva una marcia per commemorare le vittime degli attacchi in Francia, al grido di “Buttiamo fuori i criminali”. Ieri mattina, l’attacco con presa d’ostaggi al Radisson Blue Hotel di Bamako da parte di un commando jihadista. 



Ovviamente la mia frase iniziale era ironica: è assolutamente normale che Hollande abbia ricordato l’impegno anti-fondamentalista della Francia in Mali, il problema è che comunque sembra di essere in balia di un mosaico le cui tessere, una dopo l’altra, appaiono come per una sceneggiatura precostituta e precisa. Prima Parigi, poi Hannover, poi Bruxelles, poi ancora Parigi con il blitz (di sette ore, un po’ lunghino) a Saint Denis e ieri Bamako. E i terroristi? O morti o spariti, come per Charlie Hebdo. Sfortuna. Verrebbe da dire, ora a chi tocca, ma non è questa la domanda da farsi: piuttosto, cui prodest? 



Sgombriamo il campo da facili complottismi: che al mondo ci sia qualche decina di migliaia, forse qualche centinaio, di psicopatici pronti ad azioni come quella di Parigi o Londra nel 2005 per una visione criminale e distorta, anzi tutta politica e ideologica, della fede è assodato, non sono tutti burattini dei servizi segreti, dei poteri forti o della Spectre. Altrettanto vero, però, è il fatto che messi tutti insieme, quei pazzi, possono essere eliminati in un mese dall’esercito Usa, da quello russo o anche da quello francese, il meglio equipaggiato d’Europa. Eppure, per anni li si lascia pascere nella loro follia, si permette loro di decapitare, crocifiggere, lapidare, devastare siti archeologici e luoghi di culto: tutto lontano dai nostri occhi e, soprattutto, dalla nostra percezione di pericolo. 



Poi, di colpo, ecco che l’orrore ti arriva sull’uscio di casa, a Parigi e ti dice: attento, perché mentre guardi la partita allo stadio o bevi una birra con gli amici, potrebbe accaderti questo. Perché il terrore non è più ad Aleppo o Baghdad o Kirkuk, è nella “Ville lumiere”, è a un’ora di aereo da casa tua. E tutto cambia: Hollande da presidente meno stimato della storia francese diventa Charles De Gaulle e Angela Merkel, di colpo, sparisce dalla scena, annichilita dal falso allarme allo stadio di Hannover. Falso allarme, sottolineo: perché ad Hannover non c’era nulla. Solo paura distillata. E anche l’informazione si è subito uniformata, almeno in Italia: in nome della sicurezza, va tutto bene. 

Schedature, censura, arresti preventivi senza accuse formali: è un film già visto in Europa, lo usarono inglesi e spagnoli per cercare di stroncare l’Ira e l’Eta con legislazioni speciali. Il risultato? La pace o, quantomeno, la tregua arrivò in altro modo, non con la repressione tout-court, Tony Blair insegna. Ma tant’è, il panico è ormai in modalità “on”, quindi tocca conviverci. 

E mentre lo facciamo, torniamo a quel “cui prodest” di prima: sapete a chi dovrebbe fare la guerra Hollande? Allo stato dell’economia francese e, invece, come vi dicevo qualche giorno fa, ecco pronta la scusa per mandare in soffitta ogni possibile razionalizzazione della spesa e dei conti, addio a ogni vincolo: sua signoria la Paura ha fatto il miracolo, l’austerity è morta al Bataclan. Mettiamo in fila qualche numero e qualche parere, tanto per dare il senso e il timing a quanto sta accadendo. 

Lo scorso anno la Francia ha scoperto 128mila immigrati illegali, seconda solo alla Germania e ne ha fermati 11.365 ai suoi confini: questo dimostra che, vista dall’esterno, la Francia è recepita come un Paese che offre opportunità. O, meglio, sussidi a pioggia. E se gli analisti Usa ritengono che proprio Parigi sia l’alleato militare più importante di Washington, ancor più di Londra e questo spiegherebbe la fretta di Obama nel rompere il recente fidanzamento en guerre tra Hollande e Putin, le sue strade sono quanto mai insicure per un letale combinato disposto. La vera sfida francese è interna: il tasso di disoccupazione è sopra il 10%, l’economia cresce di un zero virgola ed è in rallentamento, il debito pubblico sta avvicinandosi al 100% e potrebbe superarlo se da qui al 2017 davvero il governo metterà in campo tutta quella spesa pubblica per sicurezza e difesa. Al netto di sette anni di fila di sforamento del tetto deficit/Pil del 3%: la Francia, forse, era in un vicolo cieco economico che si poteva rompere solo con un’emergenza? 

Per Gilles Saint-Paul, economista alla Paris School of Economics, la questione sta in questi termini: «Il governo ha annunciato un aumento delle spese per difesa e sicurezza che saranno finanziate con maggiore debito pubblico. Non esiste più una singola spesa che verrà tagliata. E le riforme strutturali che sono state implementate finora rimangono marginali. Di più, sono state disegnate su misura per fare contenta la Commissione europea al solo scopo di guadagnare tempo, tanto per preservare gli interessi elettorali del partito di governo. L’esecutivo pensa di poter sfruttare i vantaggi garantitigli da queste tragiche circostanze per aumentare ancora i deficit, sicuro com’è che la Commissione lo lascerà fare. Insomma, le bombe sono state una bruttissima notizia per le riforme strutturali». Parole non di un complottista, ma di un docente universitario di economia, francese oltretutto. 

Ora, creiamo un po’ di prospettiva. Stando all’ultimo report dell’Institute for Economics and Peace di cui vi ho parlato l’altro ieri, il costo economico del terrorismo a livello mondiale è stato di 52,9 miliardi di dollari lo scorso anno, una cifra di tutto rispetto ma che di fatto rappresenta circa il valore di mercato di Uber o poco più di quello di Facebook prima della quotazione in Borsa. Certo, tanti soldi, ma, come detto poco fa, mettiamo in prospettiva: quei di fatto 53 miliardi sono poco più dei 50 che Hollande nel gennaio 2014 aveva promesso di tagliare dalla spesa pubblica francese entro il 2017: cosa che non ha fatto, minimamente. Doveva tagliare alcune spese legate al sistema di welfare e sussidio, doveva dar vita al credito di imposta per le aziende: non ha fatto nulla, ha continuato a guidare un’economia disfunzionale in deficit spending, fregandosene dei vincoli europei e delle promesse fatte, collezionando nel frattempo il poco gratificante record di 80 mesi consecutivi di disoccupazione in crescita. 

Di più, avendo la Francia uno dei margini di profitto più bassi dell’Ue, il governo aveva proposto di permettere agli esercizi di restare aperti più a lungo e anche la domenica, di eliminare la contrattazione collettiva e di deregolamentare alcune professioni un po’ troppo tutelate: insomma, eliminare le rendite di posizione in un Paese iper-sindacalizzato e dove il diritto del lavoro è racchiuso in un volume di 3800 pagine! Nulla è stato fatto, Air France insegna. Di più, il costo per unità lavorativa in Francia è salito del 31% dal 1999 al 2013, quasi il triplo dell’incremento dell’11,6% vissuto dalla Germania e la sua quota di export globale è scesa al 3,6% dal 5,7%, stando a recenti studi di Standard&Poor’s. E proprio in virtù dei continui ritardi nel processo di riforma, a settembre Moody’s aveva operato il downgrade sul rating del debito francese, abbassato ad Aa2, anche se con outlook stabile. 

Ecco cosa scrisse il vice-presidente di Moody’s, Sarah Carlson, per giustificare la decisione: «Il principale driver che ha mosso la nostra decisione di abbassare il rating francese è la sempre maggiore chiarezza riguardo al fatto che la crescita economica del Paese rimarrà debole nel medio termine. In parte, questo è dovuto all’erosione della competitività e alla perdita di potenziale di crescita seguite alla crisi finanziaria globale. Ma, altrettanto, sta diventando sempre più chiaro che questi problemi continueranno a danneggiare la crescita anche dopo la ripresa». Come dire, al netto del 2008 e della crisi del debito sovrano, il governo francese e la sua inazione ci stanno mettendo del loro. E due mesi prima degli attacchi terroristici, Moody’s avvertiva che «la capacità di assorbire gli shock da parte del bilancio francese si è indebolita». 

E stando a uno studio accademico pubblicato lo scorso anno dalla Fed di St. Louis, «l’aumento di una deviazione standard nell’intensità del terrorismo in una particolare nazione può ridurre la posizione netta di investimento estero della stessa di circa il 5% del Pil, un forte impatto». Ovvero, capitali e investimenti in fuga per paura. E se il modo migliore per far cessare quella paura sarebbe garantire opportunità economiche che rimpiazzino l’odio con la speranza, c’è anche un’altra via, molto pericolosa, per affrontare la faccenda, al netto del vantaggio di Marine Le Pen nei sondaggi: usare proprio la paura, l’arma migliore del Front National, a proprio vantaggio. Il terrore fa fuggire gli investimenti esteri, indebolendo l’economia? Non c’è problema, più spesa pubblica, più welfare, più deficit, con il beneplacito dell’Ue in nome della lotta permanente al terrore: d’altronde, lo diceva già Alberto Sordi in un suo film del 1975, finché c’è guerra c’è speranza. 

Il problema è che questo ragionamento può essere elettoralmente favorevole, ancorché politicamente criminale, ma va a innestarsi in un contesto già elefantiaco di Stato-padrone: la spesa pubblica in Francia, oggi, pesa per il 55% del Pil, contro il 34% degli Stati Uniti! Insomma, l’obiettivo primario della Francia non dovrebbe essere quello di bombardare Raqqa e mostrare i muscoli bellici sullo scenario internazionale, ma, anzi, dimostrare la leadership necessaria in politica interna per riformare drasticamente la sua disfunzionale economia e mercato del lavoro. Invece, a quanto pare, la scelta è quella di sforare ogni parametro almeno fino al 2017 in nome dei disequilibri di debito e spesa che Hollande utilizza come arma contro Daesh: capite da soli che è un alibi, non una necessità reale. 

La vera sicurezza, per un Paese come la Francia, sta nella forza economica, non nel potere militare che della prima può essere solo un’estensione. Alla fine di tutto questo e con mille domande in testa, visto che leggendo la stampa francese e inglese di buchi questa storia ne presenta in quantità industriale (tipo i tre kamikaze dello Stade de France, capaci in tre di fare solo un morto oltre a loro, un passante sfortunato, tanto che un funzionario della polizia, interpellato sotto anonimato dalla France Presse, avrebbe definito quanto accaduto «senza senso da un punto di vista militare, di fatto si sono suicidati loro e basta»), mi viene da chiedere: le stragi di Parigi hanno forse evitato un imminente default francese o di una grande banca di quel Paese? 

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