Un tempo, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, si parlava in gergo burocratico e giornalistico, di “finanziaria bis”, ossia di una seconda legge finanziaria da varare prima dell’estate per tenere conto dell’evoluzione dell’economia e della finanza pubblica nei primi mesi dell’anno (dato che non li si era anticipati nel settembre dell’anno precedente, quando il disegno di legge era stato approntato). In questi giorni, dopo l’approvazione al Senato, sulla scia di maxiemendamenti e di voti di fiducia, il disegno di legge di stabilità per il 2016 sta cominciando il proprio iter alla Camera dei Deputati (dove, grazie al maxi-premio di maggioranza, il Governo può contare su un percorso in discesa). E l’Esecutivo dovrebbe cominciare a riflettere su una “legge di stabilità bis” poiché gli avvenimenti delle ultime settimane hanno mutato in misura significativa il quadro di riferimento e per l’economia reale e per la finanza pubblica.
L’Italia è presa a tenaglia da due determinanti, una proveniente dall’Ovest e l’altra dall’Est e dal Sud, che ne mettono a repentaglio e le stime dell’andamento dell’economia reale e le previsioni dei saldi di finanza pubblica. Venerdì 13 novembre, il giorno delle stragi di Parigi, il “gruppo del consenso” ( i venti istituti privati di analisi econometria previsionale che ogni mese producono, per i loro abbonati, analisi e previsioni per i 14 maggiori Paesi dell’economia internazionale) ha diramato le sue stime per i prossimi 24 mesi. Un lavoro effettuato e completato prima degli ultimi sviluppi internazionali.
Quelle per l’Italia erano meno ottimistiche di quanto incluso nel Documento di economia e finanza (Def) alla base della Legge di stabilità: una ripresa lenta e fragile che nel 2016-2017 avrebbe portato a un crescita annua del Pil sull’1,2-1,3%. Ciò spiega anche le riserve espresse dalla Commissione europea a una prima lettura del Def e della Legge di stabilità, riserve che in Italia si è inteso minimizzare. Dopo gli avvenimenti degli ultimi dieci giorni, è facile ipotizzare un ulteriore rallentamento della crescita.
Tre sono le catene di trasmissione immediate: l’export che minaccia di essere duramente colpito (il 15% circa delle nostre esportazioni è diretto al Medio Oriente e al Nord Africa); il turismo che potrebbe subire una vera e propria gelata (a ragione delle preoccupazioni di viaggiare verso uno dei Paesi individuati palesemente dal sedicente Califfato Islamico come uno dei suoi obiettivi); i consumi interni, in quanto l’incertezza è sempre associata a fenomeni di tesaurizzazione nonostante una politica monetaria molto “accomodante” (con misure come il Quantitave easing). Anzi l’incertezza può aggravare la “trappola della liquidità” (il fenomeno in base al quale la politica monetaria non riesce a esercitare alcuna influenza sulle scelte degli agenti economici).
Di grande rilievo, anche se forse sottovalutato in Italia, quanto avvenuto nella capitale del Mali (Paese che dal lontano 1969 ho visitato varie volte): indica che anche dall’Africa subsahariana confitti secolari di natura etnica o di scontri tra “regni” e clan locali stanno prendendo una piega decisamente anti-europea , prima ancora che anti-occidentale.
A queste tensioni dal Medio Oriente e dall’Africa subsahariana si aggiunge la notizia della settimana scorsa del probabile aumento dei tassi Usa. L’organo di governo della politica monetaria Usa (il Federal Open Market Committee-Fecom) dispone ormai delle analisi per decidere se aumentare o meno i tassi d’interesse alla riunione convocata per il 15-16 novembre. Le Borse, soprattutto Wall Street, già brindano in attesa di un incremento: del resto gli ultimi sei episodi di restrizioni finanziarie (in trent’anni) sono stati un toccasana per la finanza perché hanno visto ampliarsi i margini delle banche (le principali beneficiarie) e deprezzarsi il dollaro (stimolando, tramite l’export, l’economia reale).
Mentre per gli Usa l’aumento dei tassi (da livelli rasoterra) certifica un rilancio dell’economia reale ben avviato, nell’eurozona l’incremento dei tassi Usa presenta alcuni pericoli. Intanto, la fuga di capitali verso un mercato finanziario più redditizio e l’eventualità che la Banca centrale europea debba “adeguarsi” almeno in parte per frenare la fuoriuscita di capitali. Poi possibili crisi nei Paesi emergenti dove negli anni dei tassi bassi il credito bancario, in gran misura in dollari Usa e a tassi variabili, è cresciuto dal 75% al 110% del Pil, con riflessi negativi sull’export europeo. L’Europa si troverebbe così a dover limitare o forse cessare le misure straordinarie di aumento della liquidità, il Quantitative easing iniziato lo scorso gennaio (la Federal Reserve lo attua, in dimensioni ben maggiori, sin dagli ultimi mesi del 2008), che alla riunione del Consiglio Bce del 3 dicembre (o più tardi del 16 dicembre) sarà comunque sottoposto a verifica.
Dal 2008, mentre le aziende quotate a Wall Street hanno aumentato gli utili dell’83% e i multipli di Borsa sono cresciuti del 52%, nell’Eurozona i profitti aziendali sono diminuiti del 14% e i multipli di Borsa aumentati del 115%. A fronte di una situazione sana negli Usa, quella europea può preludere allo sgonfiamento di una bolla non appena interviene un elemento nuovo. Con inevitabili impatti su economia reale e, dunque, finanza pubblica. Deprimendo la prima e aumentando il rischio di sforamento dei saldi della seconda.
Chiedere, e ottenere, una deroga al Fiscal compact a ragione delle “circostanze eccezionali” darebbe un respiro di breve (anzi brevissimo) periodo, ma aggraverebbe il debito pubblico che minaccia comunque di essere appesantito dal prevedibile aumento dei tasso d’interesse Usa. Pure se l’Unione europea mostrasse “flessibilità” in materia di debito, da un lato, è difficile che i mercati internazionali facciano atto di clemenza, e, da un altro, l’eventuale clemenza dei mercati non eviterebbe la conseguenza maggiore dell’incremento del rapporto tra debito e Pil: il freno ai presagi di crescita.
Ragazzi, al lavoro, per una Legge di stabilità bis.