Come mai il credito a cittadini e imprese non riparte con lo slancio che servirebbe per sostenere la ripresa (ammesso che esista), a fronte della manovra di stimolo della Bce? Semplice, «perché le banche europee stanno aumentando solo minimamente i loro prestiti a causa del peso che ancora devono sopportare a livello di sofferenze bancarie, le quali gravano in maniera molto pesante soprattutto sui piccoli istituti». Parole e musica dell’Eba, l’Autorità bancaria europea. E non stiamo parlando di poca roba, perché si stima che i cosiddetti bad loans abbiano un controvalore di circa 1 triliardo di euro, una mole enorme di incagli e sofferenze che ovviamente va a limitare grandemente l’erogazione di credito, quello stesso capitale che imprese e cittadini utilizzerebbero per spendere e investire. Ovvero, per crescere e far crescere i loro Paesi. 



Certo, quest’anno siamo al 5,6% del totale contro il 6% dell’anno scorso, ma è ancora troppo e l’anemica attività economica dell’eurozona è lì a dimostrarlo plasticamente. Per quanto tutt’altro che sane (i loro trading desk sono da mani nei capelli), le banche statunitensi hanno a bilancio la metà delle sofferenze di quelle europee, questo sia per magheggi off-balance, sia perché subito dopo la crisi finanziaria qualcosa si è fatto per tamponare uno degli effetti più nefasti del credito allegro dell’era clintoniana. 



La criticità maggiore è legata ai prestiti verso servizi non finanziari (ovvero, le aziende), visto che in questa categoria il tasso di bad loans in Europa sale al 10% del totale: lo studio dell’Eba ha riguardato 105 banche in tutta l’Ue e la Norvegia con assets totali superiori a 30 triliardi di euro e ha identificato come sofferenza i crediti che vedono i pagamenti in ritardo di 90 o più giorni o la decisione dell’istituto stesso in base alla quale il capitale non sarà ripagato senza l’uso di collaterale. E come anticipato, il problema maggiore riguarda i piccoli istituti, quelli spesso più a diretto contatto con cittadini e piccole imprese, le cosiddette “banche del territorio”, molto diffuse in Italia ma anche in Spagna e Germania: se infatti per i grandi istituti le sofferenze sono al 4%, per quelli di dimensioni minori siamo addirittura al 18%. 



A guidare la classifica in base ai Paesi c’è Cipro, con una percentuale di bad loans sul totale addirittura del 49,6%, ovvero un prestito su due è inesigibile o deteriorato: aspettiamoci, molto a breve, un nuovo intervento dell’Ue sull’Isola. Il problema serio è che tra le grandi economie avanzate la parte del leone la fa proprio l’Italia, con un dato spaventoso rispetto alla grandezza del sistema e alla fragilità post-crisi del sistema economico e creditizio: il 16,7% del totale, mentre la maglia rosa va alla Svezia con solo l’1,1%. Molto bene anche il Regno Unito, prima delle nazioni non nordiche in classifica con il 2,9% di bad loans su prestiti totali, un risultato frutto delle ricapitalizzazioni post-crisi, delle nazionalizzazioni temporanee che hanno imposto ripulitura dei bilanci e dell’azione rapida ed efficace in tal senso della Bank of England con regolamentazioni molto dure. 

Nemmeno a dirlo, la crescita dei prestiti è più rapida e sostenuta in Paesi e banche che hanno forti ratio di capitale, chiara cartina di tornasole che chi ha fatto bene il proprio lavoro – ovvero ripulire i bilanci e costruire cuscinetti di capitale difensivo -, oggi è in grado di svolgere al meglio il suo ruolo nella società, ovvero erogare credito e gestire risparmio, piuttosto che fare trading. 

E a confermare la delicatezza della situazione ci ha pensato martedì, nel corso di un convegno sulla supervisione bancaria all’università Cattolica di Milano, Daniele Nouy, presidente del consiglio di vigilanza, l’organo della Bce deputato a sorvegliare le banche dell’eurozona, a detta della quale «le esposizioni deteriorate per le banche rappresentano ancora una seria sfida sul piano prudenziale in alcuni Paesi, inclusa l’Italia». Per la Nouy, il problema è determinato da una serie di fattori, tra i quali emergono: le condizioni economiche generali, elevati oneri pregressi relativi ad attività preesistenti, in particolare nei Paesi più colpiti dalla crisi finanziaria e i sistemi di recupero crediti talvolta carenti. 

«Come autorità di vigilanza possiamo far fronte ad alcuni di questi fattori, ma altri ricadono al di fuori della nostra competenza», ha spiegato Nouy, evidenziando come in alcuni Paesi siano stati compiuti progressi verso un quadro giuridico che si presta maggiormente all’efficace risoluzione di prestiti deteriorati. In ogni caso, il processo di revisione e valutazione prudenziale comune che la Bce sta portando avanti sulle banche, vale a dire l’esame Srep, non avrà grossi impatti sul credito concesso all’economia reale: «La maggior parte delle nostre banche – ha affermato – detiene riserve di capitale al di sopra dei requisiti minimi, pertanto le decisioni Srep non avrebbero un impatto significativo». 

Finora, le critiche alla vigilanza si sono concentrate, in particolare, sul fatto che l’imposizione di requisiti di capitale superiori ai minimi regolamentari soffochi la ripresa dell’economia che la stessa Banca centrale sta tentando di favorire tramite la sua politica monetaria espansiva. Per Nouy, invece, anche se un ente creditizio riducesse la leva finanziaria a seguito di una decisione Srep sarebbe ragionevole ipotizzare che per raggiungere tale obiettivo ridimensioni in primis le attività non strategiche: «L’erogazione di prestiti, dunque, non ne risentirebbe in prima battuta: l’applicazione di coefficienti patrimoniali più appropriati a seguito di una decisione Srep comporterebbe, inoltre una diminuzione dei costi di finanziamento della banca, il che dovrebbe avere un effetto positivo sul credito all’economia reale», ha sottolineato concludendo. Ma attenzione, perché alla criticità delle sofferenze potrebbe unirsene un’altra altrettanto seria nel breve periodo, soprattutto per le banche italiane. 

In anticipo sulla decisione della Fed di alzare i tassi il prossimo 16 dicembre (vi dico già da ora che non lo farà e citerà come spiegazione della scelta l’attuale situazione geopolitica in Medio Oriente), i grandi fondi di investimento stanno infatti liquidando già oggi grandi detenzioni di obbligazioni sovrane, di fatto l’asset più sovra-valutato del mondo grazie alle politiche di tassi zero delle Banche centrali. Nessuno, infatti, vuole essere colto con la guardia abbassata quando la Federal Reserve deciderà di intervenire su quel quarto di punto e scatterà la reflazione dovuta all’incendio dell’infinita fornitura monetaria a livello globale. 

Il Fondo pensioni norvegese, il più grande del mondo a livello sovrano, sta ruotando parte delle sue detenzioni (supervisiona assets per 860 miliardi di dollari) in proprietà immobiliari a Londra, Parigi, Berlino, Milano, New York, San Francisco, Tokyo e Hong Kong e, come ci mostra la tabella di Ubs a fondo pagina, proprio la capitale britannica e la ex-colonia cinese sono in piena bolla immobiliare: «Ogni acquisto immobiliare che facciamo è finanziato dalla vendita di obbligazioni sovrane», ha confermato Yngve Slyngstad, ceo del Fondo. 

 

Solo a Londra, l’entità norvegese è proprietaria di parte del palazzo Quadrant 3 di Regent Street e della Pollen Estate a Saville Row, acquistata lo scorso anno dalla Church Commissioners: ma non basta, nelle intenzione del Fondo c’è di arrivare a un 15% di portafoglio in investimenti immobiliari, di fatto un asset che garantisce anche un hedge rispetto all’inflazione, se e quando mai risalirà. A lanciare l’allarme sulle mosse della Fed è stata la scorsa settimana proprio la banca svizzera Ubs – un player con 2 triliardi di dollari di assets in gestione -, la quale non solo prevede a breve un aumento dei tassi da parte della Fed, ma anche cinque aumenti entro la fine del prossimo anno, 60 punti in più dei contratti futures e sufficienti per mandare a zampe all’aria un mercato elefantiaco ma ancora prezzato all’era glaciale dei tassi a zero e del Qe perenne. 

Proprio per questa fuga dai bond, si è poi venuta a creare la dinamica di cui parlavamo prima, ovvero la bolla immobiliare in molte città del mondo: la gente scappa dalle obbligazioni sovrane, ma non sa dove investire i soldi, quindi sceglie la vecchia strada del mattone. Calcolate che a Londra i prezzi sono saliti a tal punto che un colletto bianco con stipendio medio-alto impiega 14 anni per poter comprare un bilocale di 60 metri quadrati e non certo a Chelsea o Belgravia o Mayfair. Qualcun altro sta virando verso l’azionario nella classica grande rotazione, soprattutto verso il Giappone dove la Bank of Japan interviene direttamente sul mercato e si è già comprata il 54% del mercato degli Etf: inoltre, entro fine anno dovrebbe implementare gli acquisti e qualcuno si spinge a dire che potrebbe comprare anche singoli titoli trattati sugli indici. 

La manipolazione totale è servita, in un mondo dove la scorsa settimana circa 6 triliardi di titoli sovrani stava tradando con rendimento negativo, con il biennale svizzero a -1,04% e il Bund sempre a 2 anni con yield di -0,4%: il mondo dei pazzi. Di più, i titoli tedeschi e cechi sono negativi fino alla scadenza dei 6 anni, quelli olandesi fino ai 5 anni, i francesi fino a 4 anni e gli irlandesi fino a 3: per Bank of America a livello globale stanno tradando con rendimento negativo titoli sovrani per un controvalore di 17 triliardi di dollari. Il tutto in un ambiente che vede l’inflazione core a livello globale al 2,7%, il massimo da sette anni a questa parte. Insomma, disconnessione totale. 

Attenti a farsi cogliere con la guardia abbassata, perché se anche la Fed non alzerà a dicembre saranno in molti a volerla anticipare dando vita alla rotazione da bond a titoli o a beni immobiliari. E le nostre banche, già campionesse europee di sofferenze, sono sedute su oltre 400 miliardi di controvalore di titoli di Stato italiani. Lo spread, si sa, parte piano ma poi può esplodere in un attimo. E allora, altro che regalino dal Consiglio dei ministri…