Dietro ai 2.000 dipendenti delle province ancora da ricollocare a fronte dei 20.000 inizialmente stimati non c’è il successo della riforma degli enti di area vasta. Il comunicato trionfale emesso nei giorni scorsi dalla Funzione Pubblica, al contrario, nasconde la realtà opposta: il flop soprattutto della legge di stabilità per il 2015.
Alla stima di circa 2.000 dipendenti ancora soprannumerari si giunge con calcoli piuttosto semplici. Dei 20.000 dipendenti posti ex lege in sovrannumero dalla legge 190/2014, 4.000 circa erano destinati al pensionamento entro il 31/12/2016. Dal conto, nel corso del 2015 si è avuta conferma che andavano esclusi anche i 7.500 dipendenti addetti ai servizi per il lavoro e i 3.000 addetti ai corpi di polizia provinciale. Di fatto, a seguito della riforma del mercato del lavoro (d.lgs 150/2015) e del “decreto enti locali” (d.l. 98/2015), restavano da ricollocare 5.500 dipendenti. Circa 500 di essi erano, comunque, già in predicato di andare a lavorare presso il ministero della Giustizia, a seguito del sofferto bando di mobilità indetto lo scorso inverno.
Proprio il decreto enti locali ha fatto scattare la scintilla necessaria per il colpo di reni. La norma, infatti, costringeva le regioni a riordinare entro il 31 ottobre una volta per tutte le funzioni provinciali non fondamentali, pena l’obbligo di rifondere alle province e alle città metropolitane i costi. La spada di Damocle ha funzionato. Tutte le regioni hanno finalmente legiferato. Molte hanno deciso di assumere direttamente i dipendenti provinciali o, comunque, di farli uscire dalla condizione di sovrannumerarietà confermando alle province le funzioni fondamentali, per un numero stimabile in 2.000-3.000 unità. Si arriva, così, al residuo dei 2.000 ancora da collocare.
Tuttavia, non si può fare a meno di rilevare che questo è l’esito di 11 mesi di lavorio, che è costato a molte province l’obbligo di sostenere costi impossibili, a causa della sottrazione secca dalla loro possibilità di spesa di un miliardo di euro da parte dello Stato per effetto della legge 190/2014, che si è aggiunto a un altro miliardo e mezzo derivante da precedenti leggi. Ma non basta: durante tutto il 2015 a subire le conseguenze della riforma sono state anche tutte le altre amministrazioni, in primo luogo comuni e regioni, costrette a un blocco quasi totale delle assunzioni, per consentire di lasciare spazi alla ricollocazione dei dipendenti provinciali.
Beffardamente, il blocco delle assunzioni resterà operante per tutto il 2016, anche se, come si nota, sostanzialmente da ricollocare vi sarà un decimo del personale inizialmente stimato. Quanto accaduto è la dimostrazione planare degli errori di prospettiva e operativi commessi nel gestire la riforma. È chiaro a tutti come l’imposizione alle regioni di legiferare immediatamente dovesse essere disposta già 12 mesi fa. Allo stesso modo, è semplicemente paradossale che Palazzo Vidoni abbia avuto contezza dei soprannumerari effettivi solo a novembre del 2015, così come solo a dicembre conoscerà davvero l’entità dei posti disponibili nelle amministrazioni, ai fini della ricollocazione. Chiunque capisce che col semplice buon senso questi dati dovevano essere noti prima di attivare il processo di ricollocazione frettolosamente attivato con la legge 190/2014 e non dopo.
In effetti, poi, i numeri sui quali si ragiona sono ancora solo virtuali. È vero, infatti, che il decreto enti locali ha previsto una strada specifica per gli appartenenti ai corpi di polizia provinciale. Ma il processo di ricollocazione (che andrà sia verso le regioni, sia verso i comuni, ma, in regioni come ad esempio il Veneto anche in direzione della conferma all’appartenenza alle province) della polizia provinciale è tutt’altro che concluso.
Allo stesso modo, per i 7.500 dipendenti dei servizi per il lavoro tutto è ancora nebuloso. Con l’eccezione di regioni come il Friuli Venezia Giulia e la Toscana che hanno già deciso di assumere nelle proprie dotazioni organiche detti dipendenti, nella gran parte delle altre regioni si sta ancora a guardare e aspettare. Infatti, sebbene il d.lgs 150/2015 disponga abbastanza chiaramente che i servizi per il lavoro pubblici sono funzioni regionali, l’accordo in conferenza Stato-regioni del 30 luglio 2015 ha previsto di finanziare integralmente la spesa per il trattamento economico dei 7.500 dipendenti interessati, ripartendo l’onere in 2/3 a carico dello Stato e 1/3 a carico delle regioni, ma solo per gli anni 2015 e 2016.
Nel frattempo, si aspetta. Di mezzo c’è la riforma della Costituzione che riattribuisce allo Stato la competenza sui servizi per il lavoro, sicché, allora, il personale interessato potrebbe dover transitare presso la non ancora costituita Anpal (Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro). Tuttavia, potrebbe anche essere messo a regime il sistema delle convenzioni tra ministero del Lavoro e regioni, allo scopo di permettere a quest’ultime di mantenere comunque la gestione operativa e il coordinamento dei servizi nei propri territori.
Insomma, il processo di riforma delle province è ben lungi dall’essere risolto, anche se adesso la strada sembra più in discesa. Nel frattempo, appare sempre più evidente che nel 2016 gli enti di area vasta andranno dritti verso il dissesto, tanto che nel disegno di legge di stabilità 2016 si cerca di attenuare gli effetti del fatale prelievo forzoso di un altro miliardo previsto nei loro confronti.
Oltretutto si ha la conferma che l’intervento finanziario sulle province non ha avuto alcun benefico effetto. La riorganizzazione della Pubblica amministrazione è, come visto sopra, un caos; il prelievo forzoso alla spesa corrente delle province non si è tradotto in alcuna riduzione di imposta, visto che il prelievo fiscale degli enti di area vasta rimane immutato: semplicemente gran parte del gettito va allo Stato, che lo spende a proprio piacimento.
Inoltre, la Cgil ha dimostrato con un recente studio la carenza in Italia di circa 900.000 posti per bambini negli asili nido: proprio nella creazione di oltre 11.000 posti negli asili il “padre” della riforma, l’attuale ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, aveva indicato la giustificazione della riforma medesima. Ma, di nuovi posti negli asili, dovuti alla riforma delle province, non si è vista nemmeno l’ombra.