La “dannata sequenza” che ha generato la crisi sta tutta in un tormentone: un riflesso dell’aumento della produttività si mostra nella riduzione del costo del lavoro (il rapporto del Budget Office, l’organismo indipendente del Congresso Usa che fornisce analisi economiche, dice che tra il 1979 e il 2007 i redditi della classe media sono rimasti al palo); altrettanto la sovracapacità produttiva dell’impresa, quella che, per essere smaltita, impone la riduzione del ciclo di vita dei prodotti. Un eccesso tira l’altro e poi un altro ancora. 



Quei redditi da lavoro insufficienti, che non smaltiscono alla bisogna, fanno ancor di più: aumentano le scorte di merci in magazzino che la costante innovazione di prodotto, figlia della competizione, svaluta, non svuota, anzi raddoppia (nel 2005 il surplus produttivo dell’industria automobilistica mondiale era pari a 25 milioni di auto, nel 2010 a 30 milioni – 90 milioni offerte, 60 domandate); per le aziende il tempo di ammortamento dei costi si riduce.



Al mercato sotto casa, dove non si va tanto per il sottile, si fronteggiano l’aumento del volume delle merci offerte e una ancor più ridotta capacità di spesa di chi fa la spesa, non più supportata dal supporto del credito; in mezzo, a prendere schiaffi, sta la riduzione dell’utile d’impresa. Un bel guaio. 

Per uscire dal guado, ripristinando il valore di quelle merci, alle imprese tocca investire quel profitto, non impiegato nella ri-produzione, per smaltire l’invenduto rimpinguando il potere d’acquisto degli smaltitori. Investimento mediante opzione: ridurre il prezzo dell’offerta oppure aumentare il costo di produzione della domanda. Scandalo: così si riduce il reddito d’impresa; all’utile si sottrae il profitto!



Un colpo! “SELL” per quegli analisti di borsa in “tempo reale” che studiano il rapporto P/U delle aziende quotate: tirano una linea, fanno una frazione; sopra sta il prezzo dell’azione delle aziende anzidette, sotto l’utile generato da quelle aziende. Già, visto che per la media storica delle quotate allo S&P500 il rapporto dà 15, quando scende il numeratore si va oltre quel 15, l’azione risulta sopravvalutata: sell, appunto.

Questo dice un mercato che fissa strabico l’oggi; questo non dice quello abitato da ebbri analisti che invaghiti di produttività/competitività tout court, balbettano invece “BUY”. Buy che non misurano le diseconomie degli eccessi, proprio quelle che i tempi lunghi della crisi mostrano, quelle che tirano giù gli utili.

Né allarmati sell, né miopi buy servono a raddrizzare i fatti. A quelle diseconomie occorre fare la festa: investire oggi per smaltire il prodotto fornisce stimolo alla crescita, garantisce il domani e la continuità del ciclo produttivo che non svaluta le scorte, neppure gli utili. Investire il profitto è utile, pulisce quelle farragini che intralciano produttività e competitività, fa utili.

È tempo di aggiornare quei P/U dal troppo prossimo oggi o giù di lì, a un futuro anteriore, che si intravvede, dove si mostrano più stabili e sostenibili gli utili, più trasparenti ed efficaci le stime.