Venerdì scorso Standard&Poor’s ha tagliato il rating dell’Arabia Saudita dopo che Riyad ha presentato i propri conti pubblici, i quali hanno evidenziato come il Paese sia passato da un surplus di budget pari al 7% del Pil nel 2013 all’attuale deficit di budget pari al 16% del Prodotto interno lordo, il tutto a causa del crollo del prezzo del petrolio degli ultimi 18 mesi. Quindi, le già provate casse saudite ora dovranno pagare un prezzo più alto per finanziarsi, proprio a causa di quel rating azzoppato che rende più rischioso prestarle denaro, sia attraverso finanziamento diretti che attraverso l’emissione di debito, la quale solo questa estate ha visto bond per oltre 4 miliardi di dollari collocati a rendimenti sempre più alti dopo otto anni in cui non ci si presentava sul mercato obbligazionario sovrano.



Ecco il risultato, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina: il cds saudita continua a salire e oggi è al massimo dal 2009, mentre il secondo grafico, aggiustato alle dinamiche del prezzo del petrolio, ci mostra come nonostante il prezzo del petrolio sia più basso oggi dei minimi del 2009, il cds implicito legato al petrolio è inferiore al livello che toccò all’epoca. Insomma, con i rischi addizionali offerti dalla proxy war in Yemen contro l’Iran, il cds saudita ha spazio per correre ancora e l’attuale percezione di Riyad come “cassaforte” del mondo arabo potrebbe cessare del tutto, se il prezzo del petrolio non salirà, garantendo respiro alle casse statali: insomma, il credit default swap saudita è letteralmente una bomba a orologeria innescata.



Ma c’è anche qualcun’altro che sta patendo e parecchio la fine del ciclo delle commodities, un Paese insospettabile e che vanta una sfavillante tripla A di rating: il Canada. Stando all’ultimo report di Bank of America, il cosiddetto bilancio basico del Paese – una combinazione del conto corrente e capitale che tiene dentro di sé dal commercio al flusso dei mercati finanziari – è passato da un surplus pari al 4,2% del Pil a un deficit del 7,9% nei 12 mesi terminati lo scorso giugno, la stessa dinamica dell’Arabia, ma anche il più rapido deterioramento dei conti pubblici tra le 10 nazioni più sviluppate al mondo. E il terzo grafico ci mostra anche di peggio, ovvero come le fughe di capitali dal Paese siano anch’esse le più rapide tra i Paesi sviluppati e le più veloci in assoluto da sempre a causa della fine dei dieci anni di boom legati al superciclo del petrolio.



Per Credit Suisse, «questi sono soldi di investitori canadesi che muovono i loro capitali all’estero, visto che negli ultimi dieci la politica in Canada ha basato tutto sugli investimenti energetici, ma con il crollo dei prezzi questi non sono più profittevoli». Il crollo del prezzo, di fatto, ha bloccato o fatto rinviare molti progetti strategici, soprattutto legati all’oil sands, una delle regioni di produzione del greggio più care al mondo: con l’alt di Royal-Dutch Shell al progetto di trivellazione a Carmon Creek dello scorso weekend, i progetti rinviati o sospesi sono saliti a 18 da inizio anno. Ma dove vanno quei soldi in uscita? Molte aziende canadesi con un cash-flow ancora positivo avevano cominciato da mesi a guardarsi in giro per acquisizioni all’estero: la Royal Bank of Canada, ad esempio, sta cercando di comprare la City National Corporation con base a Los Angeles per 4,5 miliardi di dollari, la sua acquisizione più grande di sempre. In totale, da inizio anno l’outflow netto per fusioni o acquisizioni, completate o annunciate, da aziende canadesi è di 73 miliardi di dollari canadesi.

E il mercato azionario conferma il trend, visto che nove delle dieci aziende meglio performanti sull’indice benchmark nazionale hanno focalizzato il loro business sull’operatività estera piuttosto che sull’espansione nel mercato interno. E se il primo grafico a fondo pagina ci mostra come due mesi fa il Canada sia entrato ufficialmente nella sua prima recessione dopo la crisi finanziaria, è l’intero quadro macro del Paese a lanciare segnali di allarme. Il secondo grafico ci mostra infatti come a ottobre il settore manifatturiero sia letteralmente crollato, anche al di sotto di quello cinese in netto rallentamento e i minimi record hanno riguardato sia la produzione che i nuovi ordinativi che il dato occupazionale su base mensile. Inoltre, le nuove vendite legate all’export, sempre a ottobre, sono calate per la prima volta da aprile, con i risultati dei sondaggi tra i manager che parlano chiaramente di condizioni economiche globale in indebolimento che stanno colpendo duro i volumi di business. Insomma, nemmeno il dollaro canadese nettamente svalutato verso il dollaro Usa forte sta aiutando l’export del Paese.

Di converso, sono saliti molto e velocemente i costi della produzione, ponendo ulteriore pressione sui margini operativi delle aziende: inoltre, il Paese sta per entrare nel 12mo mese di deficit commerciale di fila. Insomma, per chi pensava – come me – che sarebbero state altre le prime vittime del crollo dei prezzi e della fine del ciclo del petrodollaro, è stato abbastanza stupefacente vedere la rapidità del deterioramento delle condizioni fiscali e macro di un Paese come il Canada che vanta ancora rating AAA, insomma una roccia delle stabilità economica che comincia a franare. Quanto ci vorrà, avanti di questo passo, prima che la recessione conclamata si tramuti in depressione di lungo corso, visto che le valutazioni del prezzo del petrolio non accennano a voler sfondare in maniera stabile quota 50 dollari al barile?

Una cosa è certa, a segnalare come la situazione sia davvero seria ci ha pensato proprio ieri la decisione dell’azienda di Calgary, Transcanada, di chiedere agli Stati Uniti di sospendere la richiesta di permesso di esplorazione per la pipeline Keystone XL, come ci mostra il terzo grafico, «ponendo il progetto in uno stato indefinito di limbo fino a dopo le elezioni presidenziali Usa del 2016». Insomma, da un lato il sintomo della crisi, dall’altro un chiaro segnale politico di appeseament verso Obama, il quale ha sempre osteggiato il progetto e ora può godersi la sua sospensione a tempo indefinito senza essere stato lui a decretarla. Tanto più che l’ultimo report dell’Iea parla chiaramente di mercato globale del petrolio che resterà saturato anche per tutto il 2016, con crescita della domanda in rallentamento e l’export iraniano destinato a far aumentare ancora il lato dell’offerta una volta che saranno tolte del tutto le sanzioni.

Per l’International energy agency, nonostante la fornitura di greggio al di fuori dell’Opec sia vista in parabola discendente, sarà il lato della domanda a indebolire i prezzi, visto che dai massimi di cinque anni registrati quest’anno si passerà a un rallentamento legato proprio agli outlook economici in peggioramento a livello mondiale: insomma, il mercato sarà sbilanciato un po’ più a lungo di quanto si pensasse.

 

 

 

E se la crescita della domanda nel 2016 ribalterà il suo trend di lungo termine, scendendo a 1,2 milioni di barili al giorno dall’1,8 milioni di quest’anno, la colpa sarà proprio dei guai economici che stanno colpendo Paesi come Russia, Venezuela, ma soprattutto i prima citati Arabia Saudita e Canada: il consumo a livello mondiale sarà di 95,7 milioni di barili al giorno come media, 100mila meno di quanto previsto soltanto un mese fa. Insomma, la decelerazione è in corso e potrebbe risultare ancora peggiore se non dovesse accadere qualcosa, ovvero nuovo stimolo da parte della Fed o un evento geopolitico che inneschi shock al rialzo per timore di mancata offerta sul mercato da parte di un grande player.

Occhio quindi a quanto sta accadendo tra Siria, Iraq e Yemen: la chiave per il mercato petrolifero potrebbe essere lì, tramutando un evento bellico drammatico nell’àncora di salvezza non solo dell’Arabia ma anche del Canada con rating AAA sempre più traballante. Se poi il terrorismo internazionale legato all’Isis dovesse colpire in Russia seguendo lo stile ceceno prima della riunione dell’Opec prevista a Vienna il 4 dicembre prossimo, allora vorrà dire che la guerra per la salvaguardia del petrodollaro è davvero cominciata in grande stile.