«La legge di stabilità si basa tutta su una scommessa politica: che nel 2016 il Pil crescerà e il debito calerà. La politica economica del governo non va quindi valutata analizzando le singole voci, ma in base al fatto che questo duplice obiettivo si realizzi o meno». A spiegarlo è Guido Gentili, editorialista ed ex direttore de Il Sole-24 Ore, dopo che Regioni, enti locali, Corte dei conti e altre istituzioni hanno mosso una serie di rilievi nei confronti della manovra. Intervenendo di fronte alla commissione Bilancio al Senato, il ministro Padoan ha risposto così alle critiche: “Si può avere un giudizio negativo o positivo di questa legge di stabilità, ma un giudizio che prenda in esame singole misure in modo isolato è un giudizio di per sé errato, distorto o quantomeno incompleto”.



Gentili, nell’insieme questa manovra ha un progetto oppure no?

L’idea da cui nasce questa legge di stabilità è che il Paese sta ripartendo, tanto che nel 2016 il Pil crescerà dell’1,6%. Per la prima volta dopo otto anni ci si aspetta che scenda anche il debito pubblico. La scommessa politica fondamentale è su due temi: la crescita e il fatto che il debito scenderà. Perché questa scommessa sia un successo, il governo ha messo in piedi una manovra molto articolata che risente di un’impostazione soprattutto politica. Ciò è confermato dalle dichiarazioni di Padoan, secondo cui gli interventi della manovra “vanno valutati nel loro insieme”.



La manovra in questi giorni è stata fatta oggetto di numerose critiche. Lei come le valuta?

Sui singoli provvedimenti la Banca d’Italia, l’Istat, la Corte dei Conti e l’ufficio parlamentare di Bilancio hanno sottolineato vari aspetti, alcuni dei quali sono in comune. Penso ai rilievi sulla spending review che è molto al di sotto di aspettative e promesse. Le critiche di merito sui singoli provvedimenti vanno però visti nell’ottica della scommessa politica di cui parlavo prima.

Per la Corte dei conti, questa è una legge di stabilità che rimanda i problemi al futuro per quanto riguarda sia le coperture sia le clausole di salvaguardia. È un’osservazione che condivide?



Questa legge di stabilità scommette molto sul 2016 e sull’idea che sarà l’anno chiave in cui ripartirà la crescita e scenderà il debito. È fatto quindi il massimo sforzo possibile per centrare l’obiettivo. In questo consiste la scommessa politica del governo, che va però confrontata con quello che sarà l’andamento dell’economia e delle variabili internazionali che si intersecheranno in questa partita.

Le critiche più accese sono arrivate da Regioni ed enti locali. Hanno ragione a lamentarsi?

Noi ci troviamo sul terreno del rapporto con Regioni ed enti locali, che sono state oggetto di una rivisitazione per quanto riguarda la riforma del titolo V che riaccentra alcuni poteri mettendo fine alla legislazione in concorrenza che ha provocato numerosi danni all’insegna di un malinteso federalismo. Ci sono dei ritardi complessivi da parte dell’intera classe politica, nonostante da anni si parli di costi standard. Ogni anno al momento di predisporre la legge di stabilità riemerge questa contrapposizione tra governo ed enti locali.

 

È vero che i bilanci delle Regioni sono messi a rischio dalla legge di stabilità?

Le spese correnti delle Regioni ammontano a 153 miliardi, e sono dunque fuori controllo. Nelle Regioni del Sud, e soprattutto in una a Statuto speciale come la Sicilia, l’efficienza dei servizi prestati ai cittadini è veramente al di sotto del livello di guardia. Quando vediamo tutto questo e registriamo l’aumentata crescita della pressione fiscale, che è arrivata a circa 130 miliardi di euro l’anno, vediamo che su questo terreno ci sarebbe probabilmente molto da fare.

 

Come andrà invece la partita con Bruxelles?

La legge di stabilità dovrà superare l’esame della Commissione Ue, che ha già mosso delle osservazioni critiche. Di fronte al giudizio sul debito e alle stime sulla crescita, se la Commissione Ue si dichiarerà convinta cifre alla mano che davvero nel 2016 il debito scenderà, allora questo può cambiare molto in un senso o nell’altro.

 

(Pietro Vernizzi)