Ieri la Borsa di Shanghai ha festeggiato i dati sul Pmi dei servizi di ottobre, in rimbalzo rispetto al mese precedente e del tutto contrastanti, se si considera il settore industriale ancora depresso. A questo si aggiunga che ieri il presidente cinese Xi Jinping ha ammesso per la prima volta, stando all’agenzia di Stato Xinhua News, che il Paese può sostenere una crescita del 6,5%, mentre fino alla scorsa settimana le previsioni del governo erano di chiudere il 2015 con una crescita del Pil del 7% senza alcuna deroga. Il services purchasing managers’ index di Caixin è balzato a quota 52 a ottobre da 50,5 di settembre, quando aveva toccato i minimi negli ultimi 14 mesi, dove 50 è lo spartiacque fra crescita e contrazione economica. Un bel contrasto con gli indicatori sulla produzione manifatturiera pubblicati a inizio settimana, che avevano mandato al tappeto le borse asiatiche. A ottobre, infatti, il Caixin China manufacturing purchasing managers index è salito a 48,3 da 47,2 di settembre: lo scorso weekend, poi, era stato pubblicato l’indice Pmi ufficiale (governativo), a quota 49,8, sotto le attese degli economisti e invariato rispetto al mese precedente. 



Dunque una Cina che si muove a due velocità, dove tutte le manovre di sostegno dell’economia messe in atto da governo e banca centrale stanno avendo un effetto più evidente nel settore dei servizi. È quanto ha scritto He Fan, capo economista di Caixin Insight Group. Concludendo però che «a questo punto non è più così importante avviare altri stimoli, il governo li può far scivolare in avanti»: nei primi tre mesi del 2015, il settore servizi ha pesato per il 51,4% del Pil cinese, rispetto al 49,1% di un anno prima. Non sono d’accordo con He Fan, proprio per nulla. Il governo può sì far scivolare in avanti nuove manovre di stimolo, ma per un’unica ragione: deve prendere tempo per scaricare stock di debito dal bilancio statale prima di lanciare un Qe in piena regola, il quale, unito a quello in implementazione della Bce e alla Bank of Japan pronta a comprare direttamente titoli azionari, potrebbe permettere alla Fed di rifiatare e possibilmente alzare i tassi di un quarto di punto senza troppi sconquassi, mantenendo così in vita la falsa narrativa della ripresa Usa. 



Cosa me lo fa pensare? Qualcosa trovato all’interno dei conti del ministero delle Finanze cinese: nulla di segreto, è pubblicato nel suo sito internet. Uno dei segnalatori di rischio più tracciati per quanto riguarda la Cina è infatti il dato mensile sulla creazione di nuovi prestiti, in particolar modo il Total social financing, il quale è utile per scoprire quanto nuovo credito è stato creato attraverso i canali non convenzionali, ovvero tramite il sistema bancario ombra. Ma c’è una cartina di tornasole ancora più interessante, ovvero il report mensile sulle aziende a controllo statale e sulle holding di Stato. Bene, guardate il grafico a fondo pagina: ci mostra come al 22 ottobre scorso, ultimo dato disponibile e relativo al periodo terminato il 30 settembre, le liabilities (ovvero il debito) di queste aziende era salito a 77,7 triliardi di yuan. Direte voi, quindi? Quindi il report del mese precedente era fermo a 71,8 triliardi di yuan, ovvero parliamo di un carico debitorio salito di 6 triliardi di yuan, ovvero 1 triliardo di dollari, in un solo mese! 



Si tratta dell’incremento mensile maggiore di sempre per le cosiddette Soe (State-owned enterprises) cinesi, ma serve a mettere in prospettiva un numero, ovvero ci mostra quale sia la magnitudo di debito su cui queste entità sono sedute: questo incremento non è pari nemmeno al 10% del debito totale, il quale alla fine di settembre era pari a 78 trliardi di yuan (12 triliardi di dollari), più del totale del Pil cinese. 

Come si può spiegare questo aumento record? Per Luo Yungfen, analista alla Essence Securities, «si tratta di un incremento senza precedenti del leverage e questo dimostra plasticamente una cosa: il governo non solo sta abbandonando la politica di deleverage che aveva cominciato per sgonfiare la bolla del credito, ma sta indebitandosi di nuovo. È possibile che quel debito fosse stato classificato in un primo momento come debito governativo e ora sia stato riallocato a bilancio come debito delle Soe». E quest’ultima ipotesi ci mostra implicitamente quale potrebbe essere il piano messo in campo dal governo per contrastare il suo enorme stock debitorio: uno dei principali ostacoli alla sua gestione, infatti, è la difficoltà tuttora presente nel dividere il debito governativo da quello delle Soe, una criticità che si riverbera anche sul mercato esterno e in vista della maggiore apertura promessa dal governo diviene un punto dirimente per attrarre investitori e garantire allo yuan il ruolo che Pechino vorrebbe, visto che a fine mese il Fmi tornerà a pronunciarsi sul suo ingresso nel paniere benchmark degli Special Drawing Rights. 

Quindi, se davvero quello che abbiamo appena descritto è stato un trasferimento di debito dallo Stato alle aziende a controllo statale, siamo di fronte a un passo avanti notevole nel processo di riforma e a un prospettiva di rivalutazione del rischio di credito: insomma, operando un “falso” deleverage, lo Stato sta dicendoci che non smetterà di incrementare il suo carico debitorio con l’arrivo del nuovo anno. È come qualcuno che sta facendo ordine e spazio in una stanza, non per ottimizzarne l’utilizzo, ma perché intende comprare merci in quantità e ha bisogno di poterle allocare. Ora però tutto questo processo fa emergere la domanda più importante: quale sarà l’impatto di questo debito enorme? Visto che negli ultimi anni l’espansione del credito ha superato la crescita economica e ora il governo pare impegnato in un processo di leverage aggressivo, questo combinato porterà a una più grande perdita di risorse? 

Paradossalmente, lo spostamento di debito tra entità appare la spiegazione più benigna, perché se davvero quel debito non era pre-esistente ma lo Stato lo ha creato in un solo mese e poi trasferito sui bilanci delle Soe per farlo sparire, allora ci troveremmo di fronte a 1 triliardo di dollari di debito creato dal nulla in 30 giorni: sintomo che l’ordine della magnitudo dei problemi della Cina è davvero molto peggiore di quanto uno possa immaginarsi. Il problema è che se anche la Cina non ha creato quel nuovo debito ora lo farà in un futuro prossimo. 

Essendo in pieno rallentamento della crescita economica e con nessun punto di svolta all’orizzonte, è probabile che il governo cinese continuerà a incrementare il leverage: non appare casuale, letta in quest’ottica e dopo il dato delle Soe, la dichiarazione dello scorso settembre della China Merchants Securities, a detta della quale «la ratio di leverage del debito governativo cinese è ancora bassa, più bassa di quella di Stati Uniti, Europa e Giappone», facendo implicitamente capire che c’era spazio per un ulteriore aumento del debito. Siamo davvero sicuri che sia davvero bassa quella ratio? 

Il primo grafico a fondo pagina pare proprio dirci il contrario: stando a dati elaborati dalla McKinsey, il debito totale cinese alla fine dello scorso anno era a 28,2 triliardi di dollari (e da allora è salito ben oltre quota 30 triliardi), portando la ratio con il Pil a quota 300%! Vi pare bassa? Ma c’è un’altra implicazione decisamente importante, soprattutto se la Cina sta veramente limitandosi a caricare debito governativo sui bilanci delle Soe. All’inizio di quest’anno, quando il mantra governativo cinese era il deleverage assoluto, Haitong Securities disse che al fine di prevenire rischi sistemici il focus nei prossimi anni sarebbe stato proprio sul leverage governativo, visto che basandosi sulle esperienze vissute da altre nazioni, le politiche di stimolo monetario quasi sempre seguono un incremento del leverage statale, con i tassi di interesse che sul lungo termine tendono a zero. Insomma, per fare spazio al Qe in pieno stile, il governo continuerà sì a fare debito, ma lo scaricherà sui bilancio delle Soe fino a quando queste arriveranno al massimo gestibile: allora e solo allora, la Cina darà vita all’ultimo atto del processo globale di monetizzazione del debito e la Banca centrale comincerà apertamente a comprare circa 3-4 triliardi di debito che la Cina crea ogni anno. 

E, come ci mostra l’ultimo grafico, a quel punto il “Minsky Moment”, non solo della Cina ma del mondo intero, sarà arrivato. Cosa sia il “Minsky Moment” è presto detto: si tratta di una teoria, definita “Ipotesi dell’instabilità finanziaria” che fu elaborata dall’economista neo-keynesiano Hyman Minsky, la quale però ha parecchi punti di contatto con la teoria dei cicli economici e di credito della Scuola austriaca, poiché basata sostanzialmente sugli eccessi di debito. 

Dopo i primi tre cicli, susseguitisi negli ultimi venti anni, a detta di molti ora la Cina sarebbe pronta a entrare nell’ultimo, il “Minsky Moment” appunto, il quale si sostanzierà con un aumento delle possibilità di una razionalizzazione disordinata degli eccessi cinesi. A oggi, infatti, l’efficienza con cui il credito genera attività economica nel Paese è già deteriorata, visto che – proprio come nel mal-investment della Scuola austriaca – sempre più investimenti finiscono in progetti non produttivi e sempre maggiore debito è usato unicamente per ripagare quello vecchio. E cosa comporterà? Stando alle analisi e alle simulazioni di Morgan Stanley, allo stato attuale delle cose, stante il rallentamento già in atto, il Pil cinese scenderà al 5% nei prossimi due anni, ma in caso di “Minsky Moment” si arriverà al 4% in un tempo molto più breve, con conseguenze disastrose per gli assets più esposti alla leva (banche e immobiliare) e per l’intera catena di offerta delle commodities, come titoli legati alle materie prime, titoli legati agli equipaggiamenti, fino a nazioni e valute legate direttamente alle commodities e ai loro cicli. 

Insomma, come vedete il mero dato mensile del debito delle aziende a controllo statale può dirci molto di più. E metterci in guardia.