Né gufi, né corvi, ma Draghi (con la maiuscola). Le nuvole che incombevano sull’economia italiana si tingono di rosa, l’Unione europea farà la brava e non romperà troppo le scatole, il governo Renzi può aumentare il deficit pubblico (anche se meno di quel che vorrebbe, due decimi di punto anziché quattro), riprendono i consumi, la produzione industriale torna a salire, la disoccupazione scende (sia pur di poco). Insomma il rimbalzo c’è, un rimbalzino rispetto ad altre fasi, ma non è fasullo. Del resto l’intera zona euro cresce lentamente, meno di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti in tutti questi anni. Quanto alla Germania, il Paese che aveva saputo approfittare della recessione (e anche dei guai altrui) adesso rischia di diventare la malata d’Europa. Per carità, teniamoci Angela Merkel, scrive l’Economist nella sua storia di copertina, con tutto quel che sta passando (dalla Volkswagen agli immigrati, dalla Deutsche Bank al rallentamento della congiuntura) se cade lei sono guai, al suo posto verrebbero senza dubbio politici peggiori. 



Renzi, dunque, può tirare un sospiro di sollievo. Alleggerito dal peso di un’Unione europea che la Germania trionfante aveva trasformato in una mitica Parca pronta a tagliare il filo che lega un Paese in difficoltà alla sua sopravvivenza economica, il capo del governo punta su una legge finanziaria dal sapore elettorale che rinvia di un anno le scelte più difficili, quelle politicamente costose, agisce su terreni sensibili riducendo le tasse sulla casa, copre due terzi delle uscite in disavanzo, sicuro che gli elettori apprezzeranno (tutti sono contenti se si può fare domani quel che si deve fare oggi). L’anno prossimo si vota nelle maggiori città (Torino, Milano, Roma, Napoli) e l’appuntamento è la prima prova della verità. 



Resta Mario Draghi, voce che parla (perché lui non grida mai) nel deserto. Intervenendo all’Università Cattolica di Milano per l’inaugurazione dell’anno accademico si è distinto dal trionfalismo ufficiale che contagia anche la grande stampa. “Siamo di fronte a una situazione in cui la dinamica dei prezzi è molto debole – ha ricordato -, il quadro macroeconomico è ancora incerto”. E ancor più lo sarà quest’inverno se la Federal Reserve imboccherà la exit strategy aumentando il costo del denaro (il primo rincaro sarà appena percepibile, un quarto di punto, ma quel che conta è il segnale) e quando la frenata cinese, la recessione del Brasile, la crisi di quasi tutte le economie emergenti, si saranno rovesciate completamente sulle esportazioni vero fattore trainante della ripresa. L’impatto è già forte sulla Germania il cui prodotto lordo dipende per circa la metà dall’export, e si fa sentire anche sull’Italia perché due terzi delle merci vendute all’estero sono destinate all’industria e ai consumatori tedeschi. 



Uno dei motori della congiuntura, dunque, non tira, resta la politica monetaria, la quale, però, non può fare tutto. Continua a ripeterlo Draghi lasciato solo dai governi, in particolare quelli che non vogliono compiere il passo ulteriore verso una maggiore integrazione fiscale e bancaria. Tra questi la Cancelleria berlinese che pure nel passato e a parole sembrava federalista. Il paradosso è che adesso Parigi vorrebbe una politica di bilancio comune, contando sul fatto che esiste ormai nell’area euro una maggioranza contraria all’austerità in versione teutonica, mentre la Germania intende migliorare i meccanismi esistenti senza cambiare nulla. 

Draghi alla Cattolica ha ripetuto che gli strumenti a disposizione della Bce non sono esauriti e nella riunione dei primi di dicembre potrebbe essere varata una seconda fase del Quantitative easing se l’inflazione resta piatta e la crescita troppo fiacca. Il Qe ha avuto un effetto positivo con ricadute nette sull’economia reale. 

La Banca d’Italia ha pubblicato in aprile uno studio di due economisti del suo sevizio studi, Pietro Cova e Giuseppe Ferrero, secondo il quale tra il 2015 e il 2016 i bassi tassi d’interesse e l’acquisto di titoli daranno una spinta alla crescita italiana dell’1,4% sia direttamente (costo del denaro e prezzi degli aste) che indirettamente (calo dell’euro e spinta all’export). Mezzo punto viene incorporato nella crescita di quest’anno e quasi un punto l’anno prossimo. Ciò vuol dire che il contributo della politica fiscale del governo sarà nettamente inferiore. Ma quanto potrà ancora spingere Draghi? E cosa dovrebbe fare il governo, secondo le autorità monetarie, per compensare l’esaurirsi della spinta propulsiva del Qe?

Il vice direttore generale della Banca d’Italia, Luigi Federico Signorini, nel corso dell’audizione sulla legge di stabilità di fronte alle Commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato ha detto che “la ripresa è cominciata in Italia e nell’area euro, ma i rischi maggiori sono che il rallentamento delle economie emergenti si aggravi e abbia effetti più seri sulle economie avanzate di quanto successo finora”. A questo scopo occorre in primis spingere sulla riduzione del debito pubblico già a partire dal 2016, un impegno importantissimo che l’Italia non deve assolutamente mancare. “Se si vuole mantenere e consolidare la fiducia dei mercati è importante assicurare una riduzione del debito chiara, visibile e progressiva nel tempo”. Dovrà poi aggiungersi un intenso lavoro volto a contenere la spesa primaria corrente “fondamentale per il risanamento dei conti pubblici”, ha ribadito Signorini. 

Quel che pensano Draghi e la Banca d’Italia sulla manovra di politica economica per il prossimo anno si può sintetizzare così: Renzi ha fatto bene a presentare una manovra espansiva (sia pur moderatamente) anche a costo di aumentare il disavanzo (che resta in ogni caso sotto il 3%). Ha fatto male a non tagliare la spesa e a non continuare con la riduzione delle imposte sul lavoro, completando il percorso cominciato con gli 80 euro. Fa male a non dare priorità a una riduzione del debito, al di là di quel che avverrà automaticamente per l’aumento del tasso di crescita in termini nominali. Anche perché se continua la deflazione non è detto che il Pil cresca a sufficienza. Draghi non gufeggia, ma avverte che bisogna cambiare marcia. È suo dovere. Dovere del governo è non fare orecchi da mercante.