La scorsa settimana vi ho dato notizia dell’ennesimo segnale di indebolimento politico ed economico dell’Arabia Saudita, ovvero il fatto che Standard&Poor’s abbia operato il downgrade del rating di credito, sceso ad AA- a causa del prolungamento andamento ribassista del prezzo del petrolio e del conseguente aumento del deficit fiscale del Paese. È la vecchia questione del ciclo del petroldollaro, ovvero con meno entrate dell’export petrolifero, i principali Paesi produttori non hanno più un surplus di capitale da “riciclare” in assets denominati in biglietti verdi e, anzi, drenano capitale invece che immetterne nel sistema finanziario globale. 



Il grafico a fondo pagina è esaustivo della situazione: l’Arabia Saudita ha 650 miliardi di dollari di riserve valutarie, quindi un cuscinetto di tutto rispetto, ma non è solo il peso del basso costo del petrolio a porre pressione sul tesoretto di Riyad, ma anche il finanziamento della proxy war in Yemen, il mantenimento dello standard di vita dei suoi cittadini attraverso servizi e welfare e il sostegno del peg del riyal con il dollaro. Detto fatto, si comincia a mettere mano alle riserve. E attenzione, perché i costi del mantenimento dello status quo sono davvero altissimi, nonostante l’idea che ognuno ha dell’Arabia Saudita sia quella di un Paese enormemente ricco. 



I cittadini del Regno, infatti, godono dei cosiddetti sussidi per il carburante, un qualcosa che ad esempio gli Emirati Arabi Uniti hanno eliminato quest’anno: se Riyad seguisse questo esempio, il governo avrebbe entrate supplementari per 27 miliardi di dollari, circa il 20% dell’attuale deficit di budget. Il problema è che a livello demografico il differenziale tra i due Paesi è enorme e l’impatto economico per i sauditi sarebbe di non poco conto, visto che porterebbe il pezzo da 0,11 dollari al litro a 0,5 dollari. Altra strada potrebbe essere quella di aumentare le tariffe dell’elettricità, una vera sfida per il consumo residenziale (che rappresenta il 51% del consumo aggregato) dato l’impatto socio economico che avrebbe sulla popolazione: inoltre, innalzare le tariffe al livello degli Emirati arabi uniti potrebbe garantire un aumento delle entrate pari a 3 miliardi di dollari, ma, anche se questa voce garantisce un impatto maggiore del settore chimico, il combinato di bolletta elettrica residenziale+industriale pesa solo per il 2,3% del deficit di budget. 



Un altro settore in cui si potrebbe intervenire è quello idrico, visto che i sauditi sono tra i cittadini che pagano l’acqua meno al mondo, 1 riyal per metro cubo per un consumo di 50 metri cubi al mese, questo nonostante non vivano in un Paese ricco di ghiacciai e dal clima torrido. Insomma, paradossalmente il prezzo maggiore che le casse di Riyad è quello per pacificare le masse ed evitare a ogni costo che si sviluppino i prodromi di “primavere arabe” nel Paese: si paga a caro prezzo la pace sociale attraverso il welfare e sussidi sui servizi essenziali, ma si sta già mettendo mano alle riserve e con il petrolio che non accenna a salire di prezzo e la guerra in Yemen che non va affatto come si sperava, il rischio è che si debba attingere ancora per parecchio. 

E con Riyad che è dovuta tornare sul mercato obbligazionario sovrano per la prima volta dopo 8 anni questa estate, in cerca di finanziamento non certo a basso costo, il primo grafico a fondo pagina ci mostra le proiezioni della ratio debito/Pil del Paese, la quale sarà cresciuta di sette volte entro la fine del prossimo anno e poi di altre cinque volte da lì alla fine del 2020. Quindi, paradossalmente, Standard&Poor’s nel definire il deficit fiscale al 16% per quest’anno e al 10% nel 2016 ha forse dipinto un quadro financo roseo della situazione reale dei conti sauditi: il tutto, al netto delle prospettive per la crescita del Pil rappresentate nel secondo grafico. 

Ma c’è di peggio, un qualcosa che sa di biblico. Per la prima volta dopo decadi, i sauditi non solo hanno a che fare con un deficit di conto corrente, ma anche con una crisi più basica, ovvero il prosciugamento degli acquedotti e quindi l’impossibilità di coltivare il grano nell’aree desertiche come fatto fino all’anno scorso. Sebbene possa sembrare impossibile, per anni e anni sorvolando i cieli sauditi si trovavano solo tre punti fermi nella vastità del deserto: pozzi petroliferi, oasi e campi di grano. Nonostante il clima torrido e virtualmente esente da pioggia, grazie agli acquedotti e ai sistemi di irrigazione, il Regno non è stato solo il maggior produttore di petrolio, ma anche di grano, il quale era la seconda voce dell’export ed era coltivato in quantità tale da poter sfamare Kuwait, Emirati Arabi, Qatar, Bahrain, Oman e Yemen. Le cosiddette “fattorie circolari del grano”, con un sistema di irrigazione al centro, sono spuntate come funghi nel deserto tra gli anni Ottanta e Novanta, rendendo possibile a chi guardava dall’alto in primavera scorgere punti verdi tra il giallo arroventato del deserto. Ora però sono rimasti soltanto i pozzi petroliferi, perché le fattorie circolari sono state chiuse per preservare l’acqua degli acquedotti che le irrigavano: e come ci mostra il terzo grafico, l’anno prossimo per la prima volta l’Arabia sarà totalmente dipendente dall’importazione di grano, un ribaltamento a 180 gradi non solo dall’autosufficienza, ma anche dal ruolo di esportatore nell’area. 

Anche Riyad, nel 2016, entrerà a far parte del club dei Paesi che, in base a un adagio molto noto tra chi tratta commodities, «vende idrocarburi per comprare carboidrati». E il mercato se n’è già accorto, visto che Swithun Still, direttore del trade sul grano alla Solaris Commodities di Morges, in Svizzera, ha dichiarato trionfante a Bloomberg che «l’Arabia Saudita è il nuovo più grande compratore di grano che sta emergendo, un mercato nuovo e molto remunerativo che si sta aprendo». E i numeri ci sono, visto che parlando a una conferenza a Riyad lo scorso mese, Ahmed bin Abdulaziz Al-Fares, direttore operativo della Grain Silos and Flour Mills Organization, l’agenzia statale che gestisce l’import di cereali, ha dichiarato che il Paese importerà 3,5 milioni di tonnellate metriche il prossimo anno, un aumento di 10 volte dalle 300mila tonnellate del 2008, il primo anno in cui le coltivazioni locali non hanno garantito la piena autosufficienza. Da allora siamo passati al 100% di dipendenza dall’export prevista per il 2016. Entro il 2015 le previsioni sono di un aumento a 4,5 milioni di tonnellate metriche, visto che l’andamento demografico sarà il driver per la domanda di farina, dato che posizionerà l’Arabia Saudita tra i 10 maggiore acquirenti di grano al mondo. 

Ma, attenzione a chi fosse nel settore, anche la Cina e l’India del Nord hanno coltivazioni in proprio garantite da sistemi di irrigazione che stanno finendo sotto pesante pressione, quindi altri due potenziali acquirenti di import potrebbero spuntare sul mercato a breve. Fa impressione pensare che l’Arabia sia divenuta esportatore netto di grano nel 1984, quando era a zero produzione solo nei primi anni Settanta: il programma di autosufficienza, però, è stato di fatto vittima del proprio successo, visto che la extra-produzione ha messo a repentaglio gli acquedotti e portato la loro tenuta ai livelli minimi. Nel 2008, poi, il governo ha deciso per un’inversione di tendenza, riducendo gli acquisti domestici annuali di grano del 12,5%, rimpiazzando questa quota con le importazioni. Ora quel numero è divenuto somma totale. 

Quindi, da forza militare, religiosa ed energetica dell’area, l’Arabia sta finendo i soldi, l’acqua e anche il grano, con l’unico lato positivo garantito dalle forze deflazionarie in atto per i tassi globali a zero che renderanno l’import di grano a buon mercato per molto tempo ancora. Per quanto la Casa reale potrà permettersi di portare avanti una guerra come quella in Yemen e magari imbarcarsi anche nell’avventura siriana, visto il sempre maggiore profilo che il nemico storico iraniano sta garantendosi nell’area? Chi pagherà il prezzo al crollo delle valutazioni del barile, le mire geostrategiche o i cittadini attraverso il tagli del welfare? L’inossidabile regno che ha dato i natali a Bin Laden riuscirà a blandire le masse o sarà la prossima vittima di una primavera araba, più o meno eterodiretta? 

Sembra una questione da poco, ma non lo è, si tratta di nuovi equilibri geopolitici e geostrategici che si stanno creando tra le pieghe della fine del superciclo delle commodities e della crisi siriana: la mappa a fondo pagina ci mostra i Paesi che stanno ricevendo aiuti dal governo Usa e il loro ammontare: come vedete, l’Arabia Saudita non c’è, in compenso oltre all’alleato storico Israele che rimane il maggior percettore, a Washington puntano forte sull’Egitto. E, casualmente, tanto per inviare un segnale sia ad Al Sisi che a Putin, qualcuno ha fatto esplodere in volo un aereo commerciale russo partito dal Sharm-el-Sheik, facendo ripiombare il Sinai nel caos e schiantando il turismo egiziano, prima voce del Pil. Il mondo sta cambiando, radicalmente e noi sembriamo non accorgercene.