Alla vigilia del fine settimana, è giunta, da Roma (Istat e Centro Studi Confindustria, Csc), Bruxelles (Commissione europea) e anche Francoforte (Banca centrale europea), una raffica di statistiche, tutte nello stesso segno (le differenze tra le une e le altre in materia di crescita del Pil dell’Italia sono così piccole da essere insignificanti), sull’andamento dell’economia italiana per i prossimi due anni. Il Bel Paese uscirebbe dalla recessione iniziata nel 2008, ma manterrebbe un tasso di crescita basso (1,4-1,5%) – non molto difforme da quell’1,3% che prima della crisi del 2008, Bce, Ce, unitamente all’Ocse e al Fmi avevano stimato essere il “tasso potenziale” di crescita di un’Italia caratterizzata da un marcato invecchiamento della popolazione, da una struttura economica obsoleta e da un pullulare di piccole e medie imprese a bassa produttività che reggono principalmente grazie a un forte corporativismo collusivo.
Non si può non essere lieti dei segni di una ripresa, colti da tutti i principali osservatori internazionali. Si pongono tuttavia due problemi. Il primo riguarda aspetti tecnici delle previsioni. La convergenza tra le varie previsioni non è un casuale dono del Fato o un segno della benevolenza del Destino. I commentatori, principalmente quelli che prima di scrivere hanno tracannato champagne, hanno dimenticato di dire che i modelli previsionali a due anni delle istituzioni citati hanno tutti la stessa matrice: il modello econometrico messo a punto dal Premio Nobel Lawrence Klein.
Tale modello ha come sua principale variabile esogena le esportazioni. Ergo, tutti coloro che criticano la Germania perché esporterebbe “troppo”, anche se principalmente al di fuori dell’area dell’euro, devono riflettere sul fatto che l’eurozona va (un po’) bene grazie al traino della bilancia commerciale tedesca. Ciò ha un’implicazione su cui riflettere, ma su cui si ragiona nella sezione “rischi di previsione” che accompagnano ciascun documento in sezioni non riprese dalla stampa: se non riprende la domanda interna, e se la situazione internazionale (Cina, Medio Oriente, Nord Africa) non migliora e l’export tedesco perde, contemporaneamente, slancio, saremmo solo alle prese con una “miniripresa” a breve termine, quelle che un tempo venivano chiamate “congiunturali”. Dunque, la ripresa è non solo modesta, ma anche fragile.
A riguardo, ha ragione Palazzo Chigi, dove sono spesso etichettato come “gufo” o “Cassandra” (dimenticando che i gufi sono animali dolcissimi e la figlia di Priamo aveva pienamente ragione e i troiani avrebbero fatto bene ad ascoltarla), nel sottolineare l’esigenza di una forte dose di fiducia per sostenere la domanda interna di consumi e soprattutto d’investimenti.
Il secondo problema è che anche se, in termini di produzione industriale, siamo ancora l’ottavo Paese del mondo (un tempo ci gloriavano di essere il settimo o anche il sesto), gli “anni difficili” non hanno curato i nodi strutturali dell’economia (e della società) italiana. In un saggio pubblicato su Economic Affairs (Vol. 36, No. 3, pp. 349-365, 2015), due docenti dell’Università di Bologna, Gianluca Pelloni e Marco Savioli, si chiedono Why Italy is Doing so Badly? – anche nelle previsioni citate restiamo al disotto della media europea. A loro avviso, i dati mostrano “una fase di declino sistemico di grandi dimensioni”. “Il sistema Italia” ha abbandonato – aggiungono – una visione dinamica dei vantaggi comparati, visione cruciale per una crescita sostenibile. Ha invece optato per una visione statica di specializzazione. La “distruzione creativa” schumpeteriana è stata bloccata; vige la friedmaniana “tirannia dello status quo”; non c’è stata una ristrutturazione dell’economia. Alle radici di questi problemi – concludono – c’è un contratto implicito tra le élite e la società civile. Un “patto scellerato” per dare contentini a tutti, che si traduce in stagnazione.
Tale è una crescita dell’1,4-1,5%, non certo in grado di dare maggiore utilizzazione ai fattori di produzione (soprattutto al lavoro).