Mancano ancora molti mesi al via della campagna ufficiale in vista del referendum sul posto della Gran Bretagna dentro o fuori dall’Europa, ma già diversi settori della società britannica s’interrogano su quali potrebbero essere le conseguenze di una “Brexit”, cioè dell’uscita dall’Unione europea. Una prospettiva che inquieta molti nella City di Londra. Anche se ci sono settori, come quello dei fondi hedge, che la vedono positivamente. Si tratta infatti di investitori che privilegiano il rischio alla ricerca di alti ritorni e quindi sono contrari alle restrizioni imposte da Bruxelles dopo la crisi finanziaria del 2007. Ma grandi banche, banche d’investimento e gestori finanziari in generale sostengono che uscire dall’Europa avrebbe un impatto negativo sul loro business e su Londra come centro finanziario globale.
L’impatto di una “Brexit” è stato discusso recentemente dagli esponenti della finanza nel corso di un summit del settore bancario a Londra, organizzato dal Financial Times. L’impatto su Londra come centro globale dei servizi finanziari sarebbe pesante, dice Colm Kelleher, presidente di Morgan Stanley Institutional Securities e CEO di Morgan Stanley International, la banca d’investimento statunitense. Le istituzioni finanziarie della capitale perderebbero grosse fette di business. Detto questo, aggiunge, “se il Paese debba restare nell’Europa o debba uscirne lo deciderà il popolo britannico e questa è l’essenza della democrazia”. James Bardrick, dirigente di Citi nel Regno Unito, spiega che c’è una crescente domanda, da parte della clientela della banca americana, di fare business oltre frontiera e in varie aree geografiche. Il fatto che la Gran Bretagna sia parte dell’Unione europea permette alla banca “di fare una serie di cose”. Al contrario, se non fosse parte dell’Europa, la banca dovrebbe cambiare il suo modo di operare e riallocare la sua forza lavoro. Ne risulterebbero “costi enormi e inefficienza”, che ricadrebbero sul cliente, dice Bardrick.
A introdurre una nota di cinismo ci pensa Yanis Varoufakis, l’ex ministro delle Finanze del governo Tsipras, dovenuto una star mediatica globale per sette mesi. “Il consensus in Europa è che la crisi del debito non sia risolta,” dice, aggiungendo che si tratta di una “crisi sistemica che non finirà mai”. Se potesse scegliere quale lavoro fare in Europa, risponde che vorrebbe essere il Cancelliere della Germania. Nel ruolo di Angela Merkel, Varoufakis presenterebbe un programma in quattro punti per risollevare l’economia dell’eurozona. Tale programma prevede anche la creazione di un fondo per la povertà sponsorizzato dalla Banca Centrale Europea e investimenti in energia pulita, startups tecnologiche e innovazione da parte della Nei.
E se per Varoufakis Bruxelles è “disfunzionale”, per Alexis de Rosnay, CEO di Canaccord Genuity UK, sull’intera questione di una “Brexit” pesa un “retaggio culturale” perchè è abbastanza normale che la gente non voglia “prendere ordini da qualcuno dal nome bizzarro, che sta in un paese lontano”.
È una sorta di taboo e la gente non vuole parlarne: “Se la Commissione europea non fosse a Bruxelles, ma a Manchester, o a Milton Keys, e se invece di avere nomi bizzarri, come Jean-Claude Juncker, avesse nomi anglosassoni, non ci sentiremmo più rilassati?” domanda de Rosnay. La crisi dell’immigrazione ha contribuito, in queste settimane, alle forti oscillazioni dei sondaggi a favore dell’uscita della Gran Bretagna dall’Europa. Se l’immigrazione è un problema, lo sono anche i politici populisti, dice de Rosnay.
Per Kelleher di Morgan Stanley le banche hanno il compito di informare circa le conseguenze economiche, ma in Europa – più che negli Stati Uniti – le banche hanno un problema di credibilità. “Possono accadere un sacco di cose da qui a un anno”, aggiunge Bardrick di Citi. Il fronte degli “in” è la maggioranza negli ultimi sondaggi, ma stanno aumentando gli “out” e c’è un centro “molto soft” tra due estremità dure. “Questo centro è quello che mi preoccupa,” dice. Standard & Poor’s recentemente ha detto che il rating sulla Gran Bretagna potrebbe subire un taglio di due livelli se il paese votasse l’uscita dall’Europa.
Anche Moody’s sta seguendo attentamente la situazione. Alastair Wilson, head of sovereign ratings presso Moody’s Investors Service, dice che le implicazioni di una “Brexit” dipenderanno molto dalle soluzioni che saranno messe in atto se la Gran Bretagna non fosse più membro dell’Unione. “C’è un elemento negativo su tutto ciò che danneggerà gli accordi commerciali del Regno Unito,” dice Wilson. L’impatto di Brexit sul paese dipenderà da quali soluzioni saranno attuate per rimpiazzare gli accordi commerciali di cui ora gode il Regno Unito in quanto membro dell’Unione, spiega.
Il primo ministro David Cameron aveva promesso che se i Tories avessero vinto le elezioni a Maggio 2015 avrebbe rinegoziato i termini della partecipazione britannica all’Unione Europea e indetto un referendum a fine 2017. Ora i tempi stringono per la rinegoziazione. Ma cosa chiede la Gran Bretagna? Innanzitutto una generale esortazione a una maggiore competitività dell’Unione (estensione del mercato unico, abolizione della regolamentazione inutile e meno burocrazia, etc.). Il primo ministro chiede poi che i parlamenti nazionali abbiano il potere di porre un freno alla legislazione di Bruxelles. Cameron vuole, per il Regno Unito, la facoltà di “opt-out” dall’obiettivo EU di una sempre maggiore integrazione.
C’è poi il tema dei “benefits” per i lavoratori Ue in Gran Bretagna. Inoltre, Londra vuole linee più marcate tra paesi che hanno adottato l’euro e paesi membri che mantengono la propria moneta e garanzie che i primi non calpestino i secondi e quindi non danneggino la City. Tra gli investitori c’è chi ricorda che l’Unione europea è il principale partner commerciale della Gran Bretagna. Non solo, nel Paese arrivano gli investimenti dall’Asia e dagli Stati Uniti. Ma sia la Cina che gli Stati Uniti hanno espresso la loro contrarietà a una eventuale uscita dall’Unione della Gran Bretagna.