Formalmente la notizia sarebbe di quelle da festeggiare con un brindisi, perché riporta un minimo di senso della democrazia e della rappresentanza in questa Europa di burocrati e consorterie, ma, di fatto, siamo di fronte all’ennesimo oltraggio. Dopo otto settimane di contese aspre e un tentativo al limite del golpistico, il presidente portoghese Anibal Cavaco Silva ha dovuto cedere e ha incaricato la coalizione di sinistra, dichiaratamente anti-austerity, di formare un governo. Insomma, per quanto io sia lontano mille miglia da certe impostazioni ideologiche, il fatto che socialisti, comunisti e sinistra estrema (Left) possano tentare di governare il Paese come volontà popolare ha espresso, è un qualcosa che fa piacere. Sbaglieranno? Saranno un fallimento? Spetta al popolo portoghese e a nessuno altro decretarlo e, nel caso, mandarli a casa. Ripeto, solo al popolo lusitano. 



E invece no ed è il motivo per cui dico che non c’è troppo da festeggiare: nel conferire loro il mandato, il presidente della Repubblica ha infatti anticipato che il governo verrà immediatamente rimosso nel caso prendesse decisioni in violazione della regole europee in fatto di deficit e Fiscal compact o se mettesse a repentaglio la “credibilità esterna” del Paese: «È un’illusione il fatto che il Portogallo possa esimersi dai suoi oneri verso creditori e istituzioni», ha chiosato Cavaco Silva. Insomma, provate pure a governare, ma con un’agenda prestabilita da me – quindi dalla troika – dalla quale non ci si può discostare, pena il decadimento dell’esecutivo: la chiamano democrazia. Ma c’è un motivo per cui il presidente della Repubblica portoghese agisce in questo modo, ovvero ai limiti della Costituzione: Lisbona negli ultimi anni era stata la bandierina da sventolare quando si parlava di austerità e Berlino ha più volte rimarcato il successo della cura da cavallo imposta al Portogallo, invitando gli altri periferici a seguirne l’esempio. 



Per Ricardo Amaro della Oxford Economics, la faccenda è tanto chiara quanto seria: «La Germania ha appena perso il suo migliore alleato per quanto riguarda la disciplina fiscale». Di più, l’esperimento lusitano formalmente non rischia di essere una replica 2.0 del caso Grecia, ovvero una nuova Syriza ampiamente ricattabile, questo perché lo scorso anno Lisbona, avendo fatto i compiti a casa, ha evitato di finire sotto tutela diretta della troika e, soprattutto, il Paese a differenza della Grecia non dipende dai soldi del fondo di salvataggio Esm per campare: insomma, non c’è leverage economica, solo politica. Inoltre, le prime mosse del leader socialista designato, Antonio Costa, non sono affatto parse quelle di un anti-europeista oltranzista. Anzi, ha immediatamente rassicurato i banchieri e i leader delle associazioni imprenditoriali che eviterà assolutamente i muro contro muro che hanno messo in ginocchio la Grecia e, soprattutto, tiene ben monitorato lo spread dei titoli di Stato, con il decennale che oggi viaggia attorno al 2,33% di rendimento, in aumento da inizio novembre ma sempre calmierato dallo scudo degli acquisti della Bce. 



E il paragone con la Grecia è stato immediatamente palesato anche dalle parole di un noto commentatore lusitano, Rui Tavares, rispetto al profilo del nuovo ministro delle Finanze, quel Mario Centeno, descritto da tutti come un economista del lavoro con un profilo molto blairiano: «Non è un nuovo Yanis Varoufakis». 

Ma attenzione, perché nonostante le rassicurazioni, ci sono almeno due incognite che gravano sul Paese. La prima, in caso il governo decidesse di trasgredire ai limiti impostigli dal Presidente su mandato Ue, potrebbe arrivare il taglio del rating da parte dell’unica agenzia che ancora garantisce l’investment grade al Portogallo, la canadese Dbrs, opzione che vedrebbe la Bce costretta a chiudere gli acquisti di bond lusitani poiché non più eligibili nella platea di collaterale, esattamente come quelli greci. Ma qui siamo all’extrema ratio, al ricatto finale in stile 2011 italiano. Secondo e più probabile, è il rischio di instabilità politica, visto che i socialisti dovranno governare in minoranza, non essendo stato raggiunto un accordo di coalizione con comunisti e Left, i quali garantiranno sì appoggio esterno, ma hanno già fatto sapere che manterranno mano libera e voteranno secondo coscienza. Insomma, su argomenti che mostrano sensibilità diverse, come il trattato sul commercio Ttip o la situazione siriana, il governo potrebbe andare clamorosamente sotto. E cadere. E il problema è serio, perché se da un lato la compattezza delle minoranze ha fatto cadere il governo di centrodestra imposto dal presidente della Repubblica nonostante il risultato delle urne, ora occorre dimostrare di poter governare e Cavaco Silva non sarà giudice imparziale, visto che non più tardi di quattro settimane fa definì pericoloso l’arrivo dei triumvirato di sinistra al potere, dichiarando che il Portogallo non avrebbe mai avuto un governo anti-euro o anti-Nato. 

E se la questione euro e Nato riguarda soprattutto comunisti e Left ma vede i socialisti assolutamente intenzionati a non porre nemmeno in agenda gli argomenti, sono le regole europee a porre qualche ostacolo, visto che i partiti di governo accetta la regole di budget imposte dalla Commissione ma le loro politiche, almeno così come le hanno annunciate in campagna elettorale e al momento di essere designati al governo, sono incompatibili sia con il Fiscal Compact che con le politiche di riforma del mondo del lavoro designate dalla troika. 

Eccone alcune delle più importanti: stop al taglio salariale e al congelamento delle pensioni per i lavoratori statali, salario minimo innalzato a 600 euro al mese più due mensilità di bonus, elettricità gratuita per le famiglie più povere, taglio dell’Iva per i ristoranti, blocco della privatizzazione dell’azienda dell’acqua Egf e della linea aerea Tap, sospensione del piano di apertura alla concorrenza dei privati nel trasporto pubblico di Lisbona e Oporto. Insomma, tutto tranne che un’agenda liberale, ma la situazione macro e dei conti potrebbe andare fuori controllo in tempi brevi. 

Societe Generale nel suo report dedicato al Portogallo ha detto chiaramente che Lisbona romperà la procedura per deficit eccessivo il prossimo anno, andando incontro al rischio di sanzioni da parte di Bruxelles, oltretutto con la spada di Damocle del Fiscal compact che incombe, visto che con la ratio debito/Pil al 128% Lisbona dovrà tagliare di un ventesimo l’ammontare superiore al 60% di ratio ogni anno per i prossimi vent’anni. In parole povere, contrazione assicurata e rischio di una spirale giapponese, stante l’inflazione stagnante nell’eurozona. E un funzionario europeo citato sotto anonimato dal britannico Daily Telegraph ha svelato il segreto di Pulcinella che ha riguardato fino a oggi il Portogallo: «La nazione, altamente indebitata, non ha prospettive fondamentalmente migliori della Grecia. Se la troika nel suo caso ha usato la mano più leggera è perché si voleva evitare un secondo disastro dopo quello di Atene, era troppo rischioso. Insomma, quella di salvare il Portogallo è stata una decisione meramente politica». 

Ecco a voi l’Europa dei popoli e non delle lobbies! A occhio, più che la politica a incidere è stata l’enorme esposizione del sistema bancario spagnolo, già salvato una volta con soldi pubblici europei, verso il Portogallo. Il Fondo monetario internazionale ha già messo in guardia Lisbona sul fatto che non esistano più margini di errore nelle sue scelte politiche, anche se il debito privato è sceso dal 252% al 210% del Pil, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina: l’economia, infatti, nel terzo trimestre di quest’anno è andata in stallo e rischia la contrazione negli ultimi tre mesi del 2015. Inoltre, nonostante il Paese abbia eliminato un deficit di conto corrente pari al 12% del Pil, questo fatto positivo è ampiamente imputabile al collasso della domanda interna e anche il “miracolo” rappresentato dall’export è andato in netta flessione a causa di un re-export con pochissimo valore aggiunto: in parole povere, la cura da cavallo ha eliminato i focolai di infezione più seri, ma ha lasciato il malato molto, molto debole a livello di struttura macro dell’economia. Nuova austerity significherebbe quindi stroncare sul nascere ogni possibile ribilanciamento sostenibile del tessuto economico. 

A dirlo sono i numeri, non le opinioni del sottoscritto: la crescita non salirà sopra l’1,4% nei prossimi quattro anni e la produzione resterà al di sotto dei livelli pre-crisi fino al 2020, lasso di tempo in cui i rischi di scivolare in una nuova recessione aumentano non di poco. Lo stesso debito pubblico resterà attorno al 130% del Pil per i prossimi quattro anni, una dinamica che lascia esposta la nazione al rischio di una possibile nuova crisi globale, soprattutto se questa partirà dal settore obbligazionario: in più, il secondo grafico ci mostra la poco rosea situazione delle sofferenze bancarie per gli istituti lusitani, stracarichi come i nostri di titoli di Stato. Insomma, una bomba a orologeria innescata. 

Ultimo ma non ultimo degli indicatori di rischio è la cosiddetta ratio Niip, ovvero la posizione di investimento internazionale netta, niente più che la classifica di attrattività dei vari Paesi nei confronti di investitori esteri: agli inizi degli anni Novanta la posizione portoghese era positiva, oggi è a -116% del Pil e in peggioramento. E con il Pil nominale che non sale e quindi le ratio di debito destinate a crescere automaticamente, la trappola per il Portogallo appare molto simile a quella greca ma con ricadute molto più pesanti, in primis la già citata esposizione spagnola. 

Servirà altra svalutazione interna e compressione salariale per cercare di uscire dall’impasse? No, ma se anche l’Europa lo chiedesse, il fronte oggi al governo ha vinto le elezioni proprio dicendo no a quella ricetta. Farà un passo indietro in nome della “stabilità”? Attenzione all’esperimento portoghese, potrebbe dirci molto del futuro degli altri Paesi periferici. Anche del nostro.