Come non essere d’accordo. Yanis Varoufakis ebbe a dire che il referendum di luglio è stato indetto per ottenere un alibi politico che doveva preparare il terreno alla “sottomissione”. Il suo successore al ministero delle Finanze, Efklidis Tsakalotos, invece ammise che senza il referendum il gruppo parlamentare di Syriza si sarebbe spaccato. Rottura che poi avvenne. In altre parole dopo sette mesi di “battaglia” con le istituzioni europee e dopo una campagna elettorale condotta sul filo della frode, il governo era costretto a trovare un espediente per uscire dal “cul de sac” in cui si era cacciato – vuoi per inesperienza, vuoi per arroganza.
Dunque i greci a luglio sono stati chiamati a pronunciarsi, tramite referendum, contro le misure di austerità contenute in un documento di 47 pagine redatto dallo stesso governo ellenico. Sono state rifiutate dal 61,3% dei votanti. Pochi giorni dopo Tsipras ha accettato un accordo ancor più sfavorevole e con un aumento del prestito di 60 miliardi. Non solo, sottomettendosi al diktat dell’Ue ha dichiarato: “Non credo a questo accordo. È un pessimo accordo per la Grecia e per l’Europa, ma ho dovuto firmarlo per evitare una catastrofe”. Quale? Quella che il suo stesso governo ha assemblato.
Panos Kammenos, presidente dei Greci Indipendenti, il partito nazionalista membro della coalizione di governo e ministro della Difesa, ha detto anche lui che accettare l’accordo del 13 luglio è stata una “capitolazione” frutto di un “ricatto” e di un vero e proprio “colpo di Stato”. E ha aggiunto, usando il lessico militare: “La Grecia capitola, ma non si arrende”, e ha chiesto ai deputati della maggioranza di votare a favore dell’accordo.
Trascorsi alcuni mesi, il “bipolarismo” politico-sociale del governo continua nella sua narrazione e nella sua “invenzione” di nuovi slogan. L’ultimo esempio: per le pensioni. Prima si parlava di “clausola zero debito” delle casse, adesso di “clausola della sostenibilità del sistema previdenziale”. Cambia la forma, resta la sostanza: le pensioni verranno ulteriormente tagliate (anzi verranno riconteggiate con nuovi parametri), aumenterà il carico fiscale delle aziende, crescerà il tasso di disoccupazione e di conseguenza diminuiranno i versamenti nelle casse pensioni che verranno unificate in un’unica grande cassa. Il tutto in attesa di investimenti esteri che creino lavoro, ma che non arriveranno domani.
Oggi, le ricadute di quel referendum – di cui nessuno si ricorda, anzi è stato volontariamente rimosso dalla memoria collettiva – non vanno analizzate con le regole della politica, ma con quelle della sociologia. Che si possono sintetizzare con la famosa frase di Maurice Barrès: “La condizione prima per la pace sociale è che i poveri abbiano la percezione della loro impotenza”. I greci hanno votato per il “no” pensando di avere il diritto di decidere del loro futuro, ma in realtà, proprio in questi giorni, stanno prendendo coscienza dell’inutilità di quella votazione. La loro “speranza” si è trasformata in “delusione”. Quelle misure di austerità contenute nelle 47 pagine della proposta ellenica che dovevano essere sottoposte al giudizio popolare erano già carta straccia prima del voto, ma sono servite prima a illudere i greci circa la loro possibilità di esprimere il proprio parere, poi di accettare la loro impotenza di fronte alle scelte imposte dai creditori.
Si potrebbe obiettare che nonostante la “fregatura” di luglio, i greci hanno votato a settembre ancora per Syriza. Ma avevano una valida alternativa? Il referendum? La più alta manifestazione della democrazia, scrissero i quotidiani italiani. Nello specifico, il referendum di Tsipras è stato l’ultimo atto di una tragedia degli equivoci recitata secondo il canovaccio del populismo di sinistra. O di una lucida e cinica strategia? La domanda andrebbe forse rivolta ai metodici tedeschi. Ad Atene si otterrebbero risposte “bizantine”.