Il salvataggio di quattro banche locali, operato “proditoriamente” in una domenica sera di due settimane fa, quando l’attenzione di tutti era polarizzata da tematiche ben diverse, ha sollevato una marea di polemiche, come del resto era naturale aspettarsi. Alcuni quotidiani hanno parlato esplicitamente di salvataggio di Stato, sia per la garanzia prestata dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp), sia per le disposizioni fiscali contenute nel cosiddetto “decreto salva banche”.
Sul primo aspetto, ho già espresso il mio parere in un precedente articolo. Mi limito a ricordare che la Cdp opera in qualità di garante del Fondo di Risoluzione (non delle banche), alimentato dai contributi del sistema bancario italiano, che possono essere elevati su misura, anche straordinaria, in caso di necessità: trattandosi di garanzia fornita, per così dire, sui propri soldi con i propri soldi, l’incapienza del Fondo è assai teorica, salvo eventi cataclismatici (ipotesi, questa, tutt’altro che irrealistica visti i tempi, ma qui entriamo in altri problemi).
Molto più sottile, invece, è l’obiezione fiscale. Le disposizioni contenute nel decreto sono volte a garantire la possibilità di adottare le agevolazioni previste in materia di imposte anticipate anche in presenza di azioni di risoluzione di situazioni di crisi, recentemente introdotte in Italia in attuazione della Direttiva Europea “Brrd” (Bank Recovery and Resolution Directive). Non sono, dunque, nuove agevolazioni, ma quelle già in essere, estese alle situazioni di crisi.
Vale la pena di ricordare che si tratta sostanzialmente di un norma introdotta nel 2010 (molto discussa anche sotto la veste di “aiuti di stato”) che consente alle banche di trasformare le attività per imposte anticipate iscritte in bilancio in crediti di imposta in caso di perdita di esercizio. La ratio della norma consiste nella differente incidenza delle imposte anticipate nei bilanci degli operatori italiani rispetto ai concorrenti europei, divario che dipende da regimi fiscali molto meno favorevoli in Italia che all’estero.
Le svalutazioni e le perdite sui crediti, ad esempio, erano deducibili soltanto in minima parte nell’anno di formazione; la parte residua era deducibile in quote costanti negli anni successivi: prima 18, poi portati a 4 dal Governo Letta e, da quest’anno, ridotti a 1 dal Governo Renzi, come per tutti gli altri competitor europei. Le banche italiane, quindi, a differenza di quanto accade negli altri paesi dell’Eurozona, hanno anticipato negli scorsi anni il pagamento di oneri fiscali. Se vogliamo quindi parlare di “regalo alle banche”, o peggio ancora di “aiuti di Stato” si può anche fare, purché si cambi direzione e si cerchi di allineare l’Europa all’Italia e non viceversa.
Un secondo aspetto riguarda il cosiddetto “bail in“, cioè il salvataggio interno a carico di azionisti e creditori. Il vero e proprio bail in previsto dalle nuove norme entrerà in vigore a partire dal prossimo anno, quando a risolvere le situazioni di dissesto saranno chiamati correntisti e risparmiatori in genere, secondo un ordine gerarchico che coinvolge azionisti e detentori di altri titoli di capitale, creditori subordinati, altri creditori, persone fisiche e piccole e medie imprese titolari di depositi per l’importo eccedente i 100 mila euro e, sotto tale limite, il Fondo di Garanzia.
Quello che è successo con le quattro banche recentemente ristrutturate è frutto di un bail in parziale, perché ha coinvolto soltanto azionisti e titolari di obbligazioni subordinate, cioè determinate categorie di risparmiatori che hanno sottoscritto investimenti a elevato rischio, al di là di come siano stati proposti alla clientela. Questa precisazione, a mio avviso, è importante, perché a ben vedere una delle poche cose sensate l’ha detta la Consob, invitando le banche a dare un’informativa più adeguata alla clientela circa gli strumenti proposti, in modo da rendere il risparmiatore pienamente edotto del rischio che corre. Mentre è assolutamente comprensibile la rabbia dei tradizionali risparmiatori, che hanno visto azzerarsi investimenti certamente mal spiegati o mal compresi nella maggior parte dei casi, lo è assai di meno quella di clienti professionali, come le fondazioni, che sono azionisti non sprovveduti, per di più assistiti spesso da autorevoli advisor.
È probabile che la Legge di stabilità ci metta una pezza, cercando di salvaguardare i piccoli risparmiatori ai quali, secondo le parole del Vice Ministro dell’Economia Morando riferite dalla stampa, la natura delle obbligazioni subordinate poteva non essere perfettamente nota. Ben venga, ma saranno nuovi costi, questi sì a carico della collettività.