Gli investitori della City sono in attesa di sapere quali indicazioni darà la Fed sui futuri rialzi dei tassi d’interesse statunitensi. Tutti danno per scontata la stretta sul costo del denaro, che è la prima dal 2006. Quello che sorprenderebbe i mercati sarebbe piuttosto una decisione contraria. Ma è il ritmo dei futuri rialzi il vero market mover.



Peter Westaway, chief Europe economist di Vanguard Asset Management, dice che la cosa più importante non è quando la Fed comincerà ad alzare i tassi ma “cosa farà dopo”. La sua previsione è che il livello a cui i tassi si stabilizzeranno al termine dei rialzi, tra qualche anno, sarà “molto più basso del livello medio a cui di solito arrivavano”.



I tassi saranno alzati “molto gradualmente e lentamente” e invece di raggiungere il 4.5%-5% probabilmente si stabilizzeranno al 2.5%-3%, dice Westaway. La ragione va cercata nel tasso di crescita statunitense che è “più basso di quanto non sia stato in passato”. Ciò è dovuto in parte a ragioni demografiche, in parte a una produttività un pò più lenta e in parte perchè molta crescita di cui abbiamo goduto era il risultato di un indebitamento eccessivo, spiega l’economista.

Tim Drayson, chief economist di Legal & General Investment Management, dice che il rialzo dei tassi è stato “ben comunicato” e “i mercati finanziari lo stanno già pienamente scontando”. Quanto alla frequenza dei rialzi il prossimo anno, per Drayson la Fed alzerà di “un punto base per trimestre” a un dato momento nel 2016. Si tratta di un ritmo dei rialzi “più veloce di quanto i mercati hanno anticipato”, nota l’economista.



A dicembre, invece, il rialzo sarà più cauto. “Credo che la Fed intenda allontanarsi dallo zero senza causare troppa agitazione nei mercati finanziari,” dice Drayson, aggiungendo di attendersi “un quarto di punto per i federal funds”.   La crescente divergenza delle politiche monetarie in Europa e Stati Uniti non è percepita come un problema. Del resto, dice Drayson, le politiche monetarie non sono mai state completamente sincronizzate dal momento che le rispettive economie si trovano in cicli molto diversi. In Europa nel medio periodo c’è meno pressione inflazionaria rispetto agli Stati Uniti. Quindi “la Fed fa bene a cominciare la normalizzazione [della propria politica monetaria] mentre la Bce continua il suo programma di acquisto di assets,” conclude.

Anche Giordano Lombardo, Ceo di Pioneer Investments, si attende una progressiva normalizzazione della politica monetaria statunitense, che sarà “graduale” e focalizzata sul mantenimento dell’inflazione vicino al target del 2%.Economisti e investitori concordano sul fatto che i mercati hanno già scontato un rialzo a Dicembre, quindi non si aspettano un impatto significativo.

Dolores Ybarra, chief investment officer di Santander Asset Management, prevede un rialzo di un quarto di punto a Dicembre e sottolinea che “l’impatto ci sarà se la Fed non alzasse i tassi”. Se la Fed alzerà i tassi con una frequenza “aggressiva”, cioè a un ritmo più elevato rispetto alle previsioni, sarà uno choc per i mercati, dice Ybarra. Il rischio sta in ciò che i mercati non si aspettano o non hanno già scontato. Se la principale preoccupazione è la Cina, anche se tra gli investitori c’è consenso sul fatto che quello dell’economia della Repubblica Popolare sarà un “soft landing”, un “atterraggio morbido”.“La Cina è una scatola nera”, mancano certezza e trasparenza, dice Ybarra. Preoccupa soprattutto l’impatto che il rallentamento dell’economia cinese ha sulla ripresa dell’America latina, mercato strategico per la società d’investimento spagnola.

Per Westaway di Vanguard i mercati emergenti rappresentano un possible rischio, ma non il più serio perchè il rialzo dei tassi sarà graduale. Certi mercati emergenti hanno beneficiato dei bassi tassi statunitensi quindi è possibile che ora vedremo ulteriori deflussi di capitale, argomenta. I mercati emergenti hanno molto debito corporate in dollari e questo è un grosso rischio, sottolinea invece Drayson di Legal & General. Secondo alcune stime, la montagna di dollari provenienti dal “Quantitative easing” che sono defluiti nei mercati emergenti da quando la Fed ha cominciato a comprare obbligazioni nel 2008 sarebbe di 7 trilioni, ha scritto il Financial Times. A un anno dalla fine del programma di Qe, per le aziende dei mercati emergenti che hanno preso in prestito enormi quantità di dollari, dal Brasile alla Cina, sta diventando sempre più difficile ripagare i loro debiti.

Jan Dehn, head of research di Ashmore, un gestore specializzato in mercati emergenti, dice che il rialzo dei tassi da parte della Fed rappresenta “l’inizio della fine di un rally in reddito fisso originato nei primi anni ’80 quando i rendimenti dei titoli di Stato americani a 10 anni erano del 16%”. Come si svolgerà la fine di questo scenario favorevole alle obbligazioni dipenderà da come si sono comportati i debitori, se bene o male, durante i bei tempi. Negli Stati Uniti il livello del debito totale, pubblico e privato, è più che raddoppiato, passando dal 163% del prodotto interno lordo nel 1980 al 337% a fine 2014, nota Dehn. Il debito governativo rispetto al Pil è raddoppiato dal 51% nel 2000 al 100% nel 2014. La situazione è molto simile in altre economie sviluppate pesantemente indebitate, come l’Eurozona. Un debito in crescita rispetto al Pil non è di per se necessariamente un problema, argomenta Dehn. “Il vero problema nelle economie sviluppate ora è che i livelli del debito sono molto alti in un momento in cui i rendimenti obbligazionari sono molto bassi” e questo suggerisce che “gli investitori non sono pagati per il rischio che corrono”.