Mercoledì la Federal Reserve comunicherà la sua decisioni sui tassi d’interesse. Dal 2006 la banca centrale statunitense non ritocca i tassi al rialzo, e dal 2008 il costo del denaro negli Usa è ai minimi storici. Lunedì le borse europee hanno risposto alle aspettative con dei ribassi. Milano ha registrato il -0,6%, Francoforte il -0,4%, Londra è rimasta stabile e Parigi ha guadagnato lo 0,1%. Intanto secondo l’Istat l’inflazione in Italia è scesa dello 0,4% tra ottobre e novembre 2015, mentre è salita dello 0,1% tra novembre 2014 e novembre 2015. Ne abbiamo parlato con Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Professore, che cosa si aspetta dalla riunione della Fed?
Mi aspetto che la Fed aumenti i tassi, anche se di poco. L’aumento dei tassi in sé prevedo sia pari a mezzo punto.
Quali conseguenze avrà l’aumento dei tassi?
Le conseguenze saranno positive da un lato e pericolose dall’altro. Positive perché per gli Stati Uniti un aumento dei tassi significherebbe un ritorno alla normalità. La variazione dei tassi d’interesse in condizioni normali dovrebbe essere lo strumento principe della politica monetaria.
Allora dove sta il pericolo che citava prima?
Questo ritorno alla normalità potrebbe essere un problema per i Paesi emergenti. Rischia inoltre di essere fonte di squilibri tra grandi aree come gli Stati Uniti e l’Europa.
In che senso?
Mentre in America ci sarebbero questi segnali di ritorno alla normalità, in Europa i tassi rimangono a zero. Questi ultimi sono positivi se, insieme alle manovre non convenzionali, consentono un finanziamento a famiglie e imprese. Se ciò non avviene è solo fonte di provviste di liquidità su cui alimentare le speculazioni.
E se la Fed decidesse di rinviare il rialzo dei tassi?
Alcuni sostengono che questo non sia ancora il momento giusto per ritornare alla normalità, ma prima o poi bisognerà farlo. L’aspettativa di un aumento dei tassi è stata discussa in lungo e in largo, e se non lo si facesse ora sarebbe spostata in là di parecchio tempo.
Perché?
Perché se si decidesse di non farlo, cosa che onestamente tenderei a escludere, bisognerebbe andare a vedere i motivi di questa scelta. Io la leggerei come un segnale degli fatto che negli Stati Uniti ci sono problemi economici più profondi di quelli finora affrontati, e rispetto ai quali un rialzo del tasso d’interesse potrebbe peggiorare la situazione.
Quali sono questi problemi più profondi?
È vero che il tasso di disoccupazione è diminuito, ma la partecipazione al mercato del lavoro soprattutto di alcune fasce d’età è ancora molto limitata. A ciò si aggiungono altri segnali economici non incoraggianti. Per esempio, la Apple è ormai un colosso mondiale, ma ha un livello gigantesco di liquidità che in sostanza non è investito.
A novembre intanto l’inflazione in Italia è calata dello 0,4%. Come lo valuta?
Un tasso congiunturale del -0,4% è una diminuzione che desta serie preoccupazioni.
Se la Fed aumenta i tassi possono esserci effetti benefici anche a questo livello?
Non vedo nessi tra le due cose. Dobbiamo però chiederci perché l’inflazione sia desiderabile. Dietro l’obiettivo del ritorno all’inflazione al 2%, in realtà si sta compiendo una silenziosa manovra dal lato dell’economia reale.
Cioè?
Le imprese sono più propense a compiere lievi aggiustamenti dei prezzi, nell’ordine dell’1-2%, se la domanda dei consumatori interni è in crescita. Una crescita della domanda potrebbe quindi generare almeno un po’ di inflazione. In questo caso l’inflazione è un segno del fatto che le cose vanno bene, perché significa che la gente spende.
Quindi l’inflazione è desiderabile in sé?
No. Altra cosa è se l’inflazione deriva dal fatto che noi paghiamo di più i prodotti d’importazione, perché a quel punto il potere d’acquisto anziché aumentare diminuisce. In quel caso abbiamo dei problemi seri, perché aggraviamo ulteriormente una situazione di rallentamento economico che nel nostro Paese è già in essere.
(Pietro Vernizzi)