E così, siamo oramai nella settimana più calda dell’anno dal punto di vista finanziario, quella in cui la presidente della Fed, Janet Yellen, potrebbe dar corso al primo aumento dei tassi americani da quasi 9 anni a questa parte. È sicuramente una decisione molto delicata, attesa da gran parte degli economisti già in varie altre circostanze, e fino a oggi mai arrivata. Da circa un anno ho ipotizzato che questa decisione non avvenga entro fine 2015 e, fino a oggi, essa non è stata presa. Sono ancora fiducioso, anche se, come detto, la maggioranza degli economisti propende per un probabile aumento in questa settimana. È come sperare contro ogni speranza. Staremo a vedere.



Certo, appare curioso vedere economisti di vario e opposto orientamento, dai keynesiani ai monetaristi, ad alcuni esponenti della scuola austriaca, auspicare che tale decisione non venga presa in questo momento. La ratio di questo auspicio è abbastanza chiara, come di seguito esporrò. Il punto centrale del ragionamento della Yellen, e della maggioranza dei componenti del Fomc, è che i rischi di un ritardo nell’attuazione della normalizzazione della politica monetaria (tenuto anche conto dei ritardati effetti endogeni della stessa politica monetaria sull’economia reale), la cui fase accomodativa è durata troppo a lungo, anche e soprattutto in relazione alla novità degli strumenti utilizzati, potrebbero essere troppo elevati poiché, un ulteriore ritardo, potrebbe comportare una successiva, e necessaria, politica restrittiva che potrebbe rivelarsi troppo brusca, tanto da poter provocare una nuova, non voluta fase recessiva. D’altra parte, la Yellen stessa afferma che il mercato del lavoro americano non ha ancora raggiunto il suo apice, cioè la piena occupazione; e che, dunque, l’auspicato riflesso inflattivo dovrebbe dispiegarsi nel tempo, forse in qualche anno, visto, anche qui, il ritardo con cui i salari seguono l’aumento dei prezzi.



E allora, perché aumentare i tassi proprio ora? Da un certo punto di vista potrebbe essere in gioco l’autorevolezza della Fed stessa. Infatti, dopo aver preannunciato più volte la stretta monetaria, e averla mai attuata, potrebbe, proprio per onorare la parola, farlo proprio ora che non appare il momento migliore. Se proprio doveva farlo, doveva sicuramente farlo prima. È questo il vero passo falso.

E perché non è il momento migliore? Perché se guardiamo i dati macroeconomici mondiali ci accorgiamo che essi ci dicono, appunto, che questo non è affatto un momento buono, e per tante ragioni. Prima di tutto occorre sfatare il mito isolazionista americano, almeno dal punto di vista economico. La pur flebile ripresa economica in atto negli Usa, peraltro nel tempo più volte rivista al ribasso, potrebbe veramente essere stroncata sul nascere, poiché non è pensabile che essa possa rimanere al riparo dai marosi che l’aumento dei tassi determinerebbe nelle altre aree economiche del mondo.



A proposito di flebile ripresa, l’esempio che viene alla mente è quello del modesto aumento di tassi che fu attuato nel 1936-1937 e che fece abortire i primi segnali di ripresa che in quel periodo cominciarono ad affiorare. Ci volle poi la Seconda guerra mondiale per consentire la definitiva uscita dell’economia dalla grande crisi iniziata nel 1929. I paragoni sono proprio simili. Infatti, come nella prima metà degli anni ‘30, oltre ai primi segnali di ripresa, ritroviamo anche il bilancio della Fed che, per far fronte alla crisi, si era gonfiato notevolmente, passando dal 5% al 20% del Pil; anche oggi, curiosamente, ritroviamo pressappoco gli stessi numeri.

Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che l’Europa e il Giappone sono in una fase deflattiva, e il loro ciclo economico è abbastanza piatto. Nell’ultima conferenza stampa, la percezione di un Mario Draghi, presidente della Bce, piuttosto “dovish” rispetto alle ipotesi, ha immediatamente innescato un recupero dell’euro sul dollaro di almeno il 4%. Non parliamo poi dell’economia della Cina, le cui negative sorprese, a mio parere, non sono affatto finite, nonostante le continue iniezioni di liquidità nel sistema e il costante deprezzamento del renminbi che, molto probabilmente, dovrebbe continuare nel corso del 2016, con effetti non certo positivi per gli altri Paesi, a cominciare dal Giappone e per finire alle Tigri asiatiche.

Ricordiamo che l’intensa spinta espansiva attuata dalle autorità cinesi dal 2009 in poi per controbilanciare la recessione mondiale, se da un lato ha dato fiato a tutto il resto del mondo, dall’altro è stata fortemente squilibrata sia nelle sue dimensioni che nella sua qualità (capitale/consumi), generando colossali squilibri interni che da circa un anno e mezzo stanno pian piano emergendo, con effetti recessivi sempre a livello mondiale. E non parliamo delle economie dei Paesi emergenti che, con alcune eccezioni, vedi l’India, mostrano dei segnali allarmanti. A tal proposito basta vedere l’andamento delle valute di alcuni Paesi per rendersene conto; stanno infatti crollando il real brasiliano, la lira turca, il rand sudafricano e così via. Non parliamo, poi, dell’incremento del debito dei Paesi emergenti, sia a livello sovrano che corporate, accumulatosi in questi anni di tassi bassi, debito denominato soprattutto in dollari. Un apprezzamento della moneta americana potrebbe letteralmente metterli in ginocchio, visto che parecchi finanziamenti cominciano a venire a scadenza già a partire dal prossimo anno. E i mercati borsistici di questi Paesi stanno tutti registrando oramai da 4 anni proprio questi timori (si veda la disconnessione tra l’indice delle borse degli emergenti e quello delle statunitensi che è cominciata a inizio 2012).

Che dire poi del prezzo del petrolio che oramai, con le quotazioni degli ultimi giorni, ha raggiunto livelli persino più bassi di quelli del 2008-2009, apice della crisi? Le quotazioni, al di là di lotte geopolitiche, non sono chiari indicatori di previsioni non certo positive sul futuro dell’andamento economico mondiale? Proprio le basse quotazioni del greggio ci riportano negli Stati Uniti dove ci aspettano fosche previsioni circa il futuro delle obbligazioni legate all’industria estrattiva di combustibile da shale. Il numero delle piattaforme petrolifere è drasticamente crollato a cominciare dal settembre 2014, seguendo di pari passo il crollo delle quotazioni del greggio, creando così i presupposti per la rottura al ribasso del break-even industriale, e dunque le condizioni per fallimenti a catena.

Un prezzo del petrolio al di sotto dei 40 dollari al barile è già una condizione di difficoltà per la gran parte dei Paesi produttori (si veda a tal proposito, oltre che alcuni Paesi mediorientali, anche la Norvegia e il Canada), figuriamoci per lo shale statunitense. E questa industria dello shale, un modo non convenzionale americano di produrre greggio, è stata alimentata proprio dal basso costo del denaro determinato proprio dalla politica della banca centrale americana.

Tale politica monetaria, che ha stimolato l’inseguimento del rendimento, ha incentivato pure un corposo mercato di obbligazioni high-yield di scarso valore. E ciò che è più drammatico è che il calo delle quotazioni dell’intero mercato obbligazionario high-yield, non solo dunque quello relativo allo shale, ha raggiunto livelli che non si vedevano dal lontano 2010; i rendimenti sono schizzati, raggiungendo e superando i livelli visti con la crisi dell’euro di fine 2011; il deflusso da questo mercato in questo dicembre è stato notevolissimo; la disconnessione tra le quotazioni dell’azionario e quello obbligazionario di questo particolare segmento sono evidentissime; qualcuno dice che siamo solo all’inizio, e si tratta, tra l’altro, di una massa enorme che vale almeno 350 miliardi di dollari; infine, alcuni economisti vedono tali stress in questo settore come un incipiente segnale che preannunciata recessione. E quanto a disastri legati al mondo obbligazionario, noi in Italia, proprio in questi giorni, ne abbiamo “assaggiato” qualcosa per la crisi di quattro piccole banche (solo 1,5% del mercato dei depositi).

Rimanendo negli Usa, potremmo prendere in considerazione alcuni dati, come i difficili numeri delle vendite al dettaglio; il brutto dato manifatturiero che farebbe pensare che tale settore probabilmente è già in fase recessiva; l’alto livello delle scorte rapportate alle vendite. È immaginabile allora proprio in questo momento un drenaggio di liquidità? È il momento propizio? E allora, perché mai, a fronte di questo semplificato quadro economico-finanziario che, come si è potuto vedere, non è dei più rosei, la Fed potrebbe, come oramai gran parte degli economisti scommette, iniziare ad aumentare i tassi di interesse?

La Fed ritengo che sia ben conscia che anche un modesto aumento dei tassi, anche di soli 25 punti base potrebbe creare scossoni non legati all’aumento in se stesso, ma quanto alla modificata percezione di un’inversione di tendenza nella politica monetaria americana. Non è importante il primo aumento, ma la percezione di quello che viene dopo! E le borse si stanno già riposizionando al ribasso sulla base di questa percezione. La Fed, dobbiamo rimarcare, con la sua politica monetaria espansiva, sarebbe meglio dire, con i suoi esperimenti monetari, poi adottati da tutte le altre banche centrali, ha creato una curiosa situazione in cui da una parte abbiamo quotazioni elevate nelle borse, prefigurando così una situazione di espansione e crescita economica e, dall’altra, la spinta all’insù anche delle quotazioni del mercato delle obbligazioni e dei titoli di Stato, prefigurando così, all’opposto, uno scenario di debole crescita economica. Questi due contrastanti scenari, sarebbe meglio dire queste due bolle speculative, trovano solo una risposta conciliativa che è quella della stampa di enormi quantità di moneta.

La Fed dovrebbe dunque ben meditare su tutto questo. Può essa rimanere legata solo al dato della occupazione che apparentemente sembra andare a gonfie vele? Dico apparentemente perché anziché contare i singoli posti lavoro, la Fed dovrebbe guardare alle ore lavoro-persona; lo scenario, in questo modo, non sarebbe più così roseo. E ciò spiegherebbe anche il perché delle fiacche vendite al retail. Inoltre, si può ben immaginare che essa sia ben cosciente del deteriorato quadro economico generale, ma potrebbe, per una mera questione di attenzione alla sua immagine, alla difesa della sua autorevolezza, mettere in atto quello che varie volte ha dato a intendere di fare, ma che mai ha di fatto attuato. E questo sarebbe l’errore più grosso. Per essa e per tutti noi!

Vorrei concludere con una bella frase di Aldous Huxley che spiega bene il quadro della situazione di questo momento ed è di monito per la Fed: “I fatti non cessano di esistere, solo perché sono ignorati”.