“Non è chiaro cosa comporterà ora il nuovo piano della Cassa depositi e prestiti, ma è noto che l’Italia è un cattivo utilizzatore dei fondi Ue. La mia congettura è che un terzo dei fondi Ue disponibili entro la fine di quest’anno non sarà alla fine utilizzato”. Lo scrive Lorenzo Codogno, fino a pochi mesi fa capo-economista del ministero dell’Economia, in un suo commento-flash al piano strategico Cdp presentato giovedì dal ministro Pier Carlo Padoan e dai nuovi vertici: il presidente Claudio Costamagna e l’amministratore delegato Fabio Gallia.
Il cambio di management e ora il cambio di strategia porteranno la Cdp a un ruolo effettivamente più attivo nel finanziamento dell’economia italiana? Codogno – visiting professor alla London School of Economics e fondatore del think tank LC Macro Advisers – parte dall’annuncio – “apparentemente di svolta” – di “un piano di sostegno all’economia dotato di 160 miliardi di risorse fresche, oltreché di 100 miliardi di risorse addizionali pubbliche e private provenienti anche da fondi Ue e Bei”: con una prospettiva che Codogno giudica di per sé importante di possibile effetto-leva sui piani Ue esistenti. Ma l’analisi non conduce a a una promozione senza riserve di quello che potrebbe sembrare un”piano Juncker nazionale”: di reale stimolo alla ripresa attraverso spesa pubblica per investimenti.
Codogno nota anzitutto che il fine del piano è il cofinanziamento di piani d’investimento con altri intermediari finanziari e l’attrazione di capitali privati. Tuttavia “è interessante notare che fra le priorità del piano Cdp c’è il supporto agli enti pubblici, centrali e locali, per 15 miliardi (+22% sugli ultimi 5 anni) con l’obiettivo dichiarato di rompere i vincoli del piano di stabilità interno”. Come secondo obiettivo viene quello di chiudere il gap infrasrutturale con il resto d’Europa. E’ su questo terreno – la capacità del sistema-Italia di far lavorare i fondi Ue nel mentre si chiede più flessibilità alla stessa Ue nella finanza pubblica – che Codogno solleva almeno tre dubbi. Il primo è “l’incompetenza tecnica a livello locale e nazionale”, non migliorata dalla recente creazione di un agenzia ad hoc. Il secondo è rappresentato dai “limiti posti dal patto di stabilità interno alla possibilità delle amministrazioni locali di co-finanziare progetti”. Non da ultimo, in Italia sembrano “mancare buoni progetti e un’adeguata pianificazione”.
Per questo l’ex dirigente generale del Tesoro si dice “scettico” sulle prospettive del piano Cdp di “migliorare realmente le cose, viste le esperienze del passato”. Non per questo l’economista è del tutto pessimista: il piano Cdp – scrive – è indubbiamente “un nuovo tentativo”. Inoltre c’è l’esplicito obiettivo di rafforzare il credito anche per piani infrastrutturali di piccola scala e la partecipazione a fondi infrastrutturali nazionali e internazionali. Non da ultimo il fondo mobilizza 117 miliardi per venture capital, innovazione, sviluppo e investimento e ristrutturazione di società nazionali. “E’ il cuore del piano, ma anche il più difficile da implementare”.