Come sempre, con l’approssimarsi dell’anno nuovo, Saxo Bank ha pubblicato le sue dieci “previsioni oltraggiose” per i mercati. Insomma, Steen Jakobsen e il suo team hanno provato a immaginare quali potrebbero essere i “cigni neri” per il 2016 e se alcune previsioni sono interessanti, altre lasciano davvero il tempo che trovano, come ad esempio le Olimpiadi che scatenerebbero la ripresa degli emergenti guidata dal Brasile o El Nino che scatenerà un’ondata inflazionistica il prossimo anno. Due, invece, mi paiono interessanti ma per scenari che, come vedrete dopo, io vedo un pochino differenti nel loro sviluppo potenziale e, anche nel mio caso, “oltraggioso” o quantomeno estremo. 



Nel primo caso, Saxo Bank vede il potenziale, entro la fine del 2016, di un aumento del rublo russo di circa il 20% contro il basket euro/dollaro a causa di un’impennata della domanda di petrolio e dell’innalzamento dei tassi della Fed a un ritmo impropriamente lento. Nel secondo, invece, l’agitazione in seno all’Opec scatenerebbe un breve ritorno ai 100 dollari al barile, dovuto a uno sparigliamento della strategia di mercato con un aggiustamento al ribasso della produzione e rompendo la spirale ribassista del prezzo, a fronte di investitori affannati per rientrare lunghi sul mercato. 



Ora provo a mettere io sul tavolo le mie ipotesi riguardo a questi due scenari, partendo dal rublo. Anche per quanto mi riguarda sarà la domanda di petrolio a facilitare l’apprezzamento della moneta russa, ma potrebbe essere anche altro e ha molto a che fare con quanto accaduto martedì scorso. Mentre il mondo attendeva la decisione della Fed e nei cinema italiani cresceva l’attesa per il ritorno di “Guerre stellari”, il segretario di Stato Usa, John Kerry, era a Mosca per incontrare il ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, e parlare di Siria e lotta al terrorismo. Come sapete, la posizione statunitense su Damasco è sempre stata molto chiara e netta: nessuna transizione possibile con Assad ancora al potere, il presidente deve andarsene. 



Bene, come riportava l’Associated Press, la capitolazione americana è stata totale, visto che John Kerry ha accettato la richiesta russa riguardo al fatto che il destino di Bashar al-Assad sia lasciato nelle mani dei suoi connazionali. «Gli Stati Uniti e i nostri partner non stanno cercando un cosiddetto regime-change e il focus non è più basato sulle differenze rispetto a cosa si può o non si può fare immediatamente riguardo Assad», ha dichiarato Kerry. Di fatto, un’umiliazione, visto che Barack Obama cominciò il suo mantra “Assad must go” nell’estate del 2011, salvo poi concedere che non se ne andasse proprio il primo giorno della transizione e arrivare ora all’indeterminatezza totale riguardo la sua permanenza al potere. Mai Washington ha mostrato una debolezza diplomatica simile. Unico punto su cui gli Usa non hanno ceduto alle pressioni russe è l’abbandono della loro politica di differenziazione tra ribelli moderati e non moderati che operano contro Assad e la cosa appare abbastanza normale, visto che in quelle fila ci sono molto guerriglieri addestrati direttamente dalla Cia e dai servizi segreti britannici. E se la conferenza internazionale sulla Siria che si terrà la settimana prossima a New York ci dirà di più, Kerry ha lasciato Mosca pronunciando le seguenti parole: «Non c’è una politica degli Stati Uniti, in sé, per isolare la Russia». 

Ora, ovviamente, gli Usa cercheranno di rientrare nel gioco diplomatico e di far pesare le proprie posizioni e i propri interessi, ma se davvero Vladimir Putin dovesse riuscire a mettere completamente in ombra l’Amministrazione Obama, divenendo il “padre” di una transizione di potere in Siria nell’ambito di un accordo regionale contro il terrorismo, allora le scommesse sarebbero davvero tutte aperte. Primo, verrebbe depotenziato il ruolo sia dell’Arabia Saudita ma soprattutto della Turchia, la quale si trova già in precario equilibrio interno e con la situazione valutaria in peggioramento costante. Di più, un accordo su ampia scala che ridisegni gli equilibri mediorientali potrebbe porre fine al flusso enorme di profughi che si riversano in Europa, uno sviluppo che farebbe particolarmente piacere ad Angela Merkel, la quale come vi ho detto nel mio articolo di giovedì, sta pagando un prezzo molto alto alla sua politica di porte aperte. A quel punto, avendo già l’Italia fatto sapere con anticipo il suo parere favorevole, la Germania potrebbe spingere in sede europea per la rimozione delle sanzioni contro la Russia, contraddicendo la sua posizione di questi giorni. A quel punto, Putin avrebbe ottenuto tutto ciò che vuole: avrebbe imposto la sua impronta nella politica mediorientale, avrebbe espanso l’influenza russa ben oltre i vecchi confini sovietici e avrebbe risolto il congelamento delle relazioni con l’Ue dovuto alla questione della Crimea. A quel punto, rublo e Borsa russa andrebbero in rally, i titoli delle aziende europee legate all’alimentare schizzerebbero grazie all’eliminazione del bando russo sull’import, mentre i titoli tedeschi sarebbero tra i più gettonati perché la fine delle barriere e delle sanzioni spingerebbero l’export al massimo verso il primo partner commerciale dell’Unione europea. 

Gli Usa permetteranno uno sviluppo simile? No, ma resta il fatto che questa è l’agenda di Putin e penso che il presidente russo farà di tutto per ottenere il massimo, essendo questa un’occasione assolutamente storica per ribaltare gli equilibri geopolitici. Vediamo ora la questione petrolio, la quale potrebbe certamente essere caratterizzata da una marcia indietro forzata dell’Arabia Saudita in seno all’Opec, come vi dicevo nel mio articolo di mercoledì, ma potrebbe anche sostanziarsi nella dinamica opposta, ovvero l’utilizzo di ciò che rimarrà dell’Isis per procurare uno shock rialzista sul prezzo attraverso grandi danneggiamenti dei principali siti di produzione e raffinazione e delle infrastrutture strategiche di alcuni Paesi del Medio Oriente, in primis l’Iraq, la cui produzione sta crescendo, ma anche la Siria e la Libia. Questi atti potrebbero poi avvenire in contemporanea con rinnovate tensioni nell’area strategica del delta del Niger e nessuno può escludere un colpo di Stato in Venezuela, ora che Maduro ha perso il potere e le retroguardie del movimento rivoluzionario di Chavez potrebbero tentare il tutto per tutto. 

Inoltre, molti analisti appaiono preoccupati per la situazione in Algeria, stante anche l’età non più giovane del presidente Abdelaziz Bouteflika, senza il quale la nazione potrebbe molto facilmente venire infiammata dal contagio mediorientale e finire nel caos. A quel punto, la tensione sul mercato del petrolio potrebbe diventare irrazionale e, a fronte della saturazione e del surplus di offerta che per il 2016 sarà di 700mila barili l’anno, spingere le quotazioni rapidamente al rialzo, soprattutto se dall’Opec dovesse arrivare il messaggio di una non capacità di rimpiazzare l’offerta venuta a mancare a causa dei danneggiamenti e delle situazioni di tensione politica. 

A quel punto, con il barile a 100 dollari, la Fed potrebbe bloccare il suo ciclo di contrazione monetaria, visto che la Cina potrebbe facilmente finire in una sorta di recessione tecnica. Immediatamente, i titoli legati a nucleare ed energie rinnovabili potrebbero dare una spinta strutturale agli indici di molte Borse. 

Ma c’è un’altra ipotesi, ovviamente “oltraggiosa”, che potrebbe sostanziarsi nel 2016. Con Barack Obama ormai ridotto politicamente a un’anatra zoppa dall’avanzata diplomatica della Russia e gli Stati Uniti concentrati quasi unicamente sul fronte interno delle presidenziali, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu potrebbe tentare di far saltare l’accordo sul nucleare civile iraniano, dando ordine all’aeronautica di attaccare alcune infrastrutture atomiche in risposta a una supposta minaccia diretta. Questo, ovviamente, porterebbe ulteriore tensione in Medio Oriente e orienterebbe in maniera chiara le elezioni statunitensi, ponendo il tema della sicurezza e degli Stati canaglia in cima all’agenda dei candidati. In virtù di tutto questo e di prove della malafede iraniana, vere o presunte tali, l’accordo con Teheran salterebbe e le sanzioni addirittura rafforzate. Immediatamente, il petrolio salirebbe di prezzo, così come l’oro e i contratti commerciali già firmati con l’Iran verrebbero congelati, colpendo soprattutto le aziende petrolifere europee. E a fronte di un rischio per il mercato azionario israeliano, il comparto difesa e armamenti volerebbe alle stelle nell’attesa di un ampliamento generalizzato delle spese per la sicurezza nazionale da parte dei vari Stati, il cosiddetto “warfare”, il miglior moltiplicatore del Pil che esista. 

Se poi, per puro caso, Donald Trump e la sua agenda tutt’altro che ortodossa dovessero prendere domicilio alla Casa Bianca, quell’effetto moltiplicatore garantito dal comparto difesa arriverebbe al suo nadir, innescando inoltre un deprezzamento del dollaro che farebbe la gioia delle corporations americane focalizzate sull’export. 

Succederà qualcosa di quanto vi ho detto nel 2016? Chissà, ormai manca poco, stiamo a vedere.